Strage di Acca Larenzia attentato | |
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Folla sul luogo dell'attentato: si riconoscono Giorgio Almirante, Pino Romualdi e Domenico Gramazio | |
Tipo | Agguato con armi da fuoco |
Data | 7 gennaio 1978 18:20 – 22:00 |
Luogo | Roma |
Stato | Italia |
Obiettivo | Giovani del Fronte della Gioventù |
Responsabili | Militanti di estrema sinistra |
Motivazione | Omicidio a scopo politico |
Conseguenze | |
Morti | 3 |
Feriti | 1 |
Strage di Acca Larenzia è la denominazione giornalistica[1] del pluriomicidio a sfondo politico avvenuto a Roma il 7 gennaio 1978, per opera di un gruppo armato afferente alla estrema sinistra, nel quale furono uccisi due giovani appartenenti al Fronte della Gioventù, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, assassinati davanti alla sede del Movimento Sociale Italiano in via Acca Larenzia, nel quartiere Tuscolano.
A tali fatti è strettamente legata la morte di un terzo attivista della destra sociale, Stefano Recchioni, ucciso qualche ora dopo negli scontri con le forze dell'ordine avvenuti durante una manifestazione di protesta organizzata sul luogo stesso dell'agguato.
L'agguato, rivendicato dai Nuclei armati per il contropotere territoriale, contribuì a una degenerazione della violenza politica e dell'odio ideologico tra le opposte fazioni estremiste negli anni di piombo, oltre che al mantenimento di uno stato di tensione caratteristico della Prima Repubblica.
Verso le 18:20 del 7 gennaio 1978 cinque giovani militanti missini che si apprestavano a uscire dalla sede del Movimento Sociale Italiano in via Acca Larentia per pubblicizzare con un volantinaggio un concerto del gruppo di musica alternativa di destra Amici del Vento, furono investiti dai colpi di diverse armi automatiche sparati da un gruppo di fuoco formato da cinque o sei persone. Uno dei militanti, Franco Bigonzetti, ventenne iscritto al primo anno della facoltà di medicina e chirurgia, rimase ucciso sul colpo.
Il meccanico Vincenzo Segneri, ferito a un braccio, rientrò nella sede del partito e, assieme agli altri due militanti rimasti illesi – Maurizio Lupini, responsabile dei comitati di quartiere, e lo studente Giuseppe D'Audino – riuscì a chiudere dietro di sé la porta blindata, sfuggendo in questo modo all'agguato.[2]
Lo studente diciottenne Francesco Ciavatta, pur ferito, tentò di fuggire lungo la scalinata situata a lato dell'ingresso della sezione ma, inseguito dagli aggressori, fu colpito nuovamente alla schiena; morì in ambulanza durante il trasporto in ospedale.
Alcuni mesi dopo, il padre di Francesco Ciavatta, portiere di uno stabile in via Deruta 19, si uccise per la disperazione bevendo una bottiglia di acido muriatico.[3]
Nelle ore seguenti, col diffondersi della notizia dell'agguato tra i militanti missini, una folla di attivisti organizzò un sit-in di protesta sul luogo della tragedia. Qui, forse per il gesto distratto di un giornalista che avrebbe gettato un mozzicone di sigaretta nel sangue rappreso sul terreno di una delle vittime, nacquero tafferugli e scontri che, fra l'altro, danneggiarono le apparecchiature video dei giornalisti Rai e provocarono l'intervento delle forze dell'ordine, con cariche e lancio di lacrimogeni. Uno di questi colpì anche l'allora segretario nazionale del Fronte della Gioventù, Gianfranco Fini.[4]
In seguito ai tafferugli restò ucciso un altro ragazzo, Stefano Recchioni,[5] militante della sezione di Colle Oppio e chitarrista del gruppo di musica alternativa Janus. Il giovane morì dopo due giorni di agonia.[6] Le dinamiche e le responsabilità per la sua morte restano ancora irrisolte.
La versione iniziale, che si rivelò completamente priva di fondamento tanto che diversi anni dopo l'ufficiale inizialmente indicato come responsabile fu assolto per non aver commesso il fatto[7], fu, secondo alcune testimonianze, smentite molti anni dopo da perizie balistiche, che i Carabinieri avrebbero sparato alcuni colpi in aria mentre il capitano Eduardo Sivori[8] avrebbe sparato mirando ad altezza d'uomo, ma la sua arma s'inceppò; l'ufficiale si sarebbe quindi fatto consegnare la pistola dal suo attendente e sparando di nuovo avrebbe centrato in piena fronte il diciannovenne Stefano Recchioni. Inizialmente i compagni di partito delle vittime tentarono di raccogliere le firme per denunciare l'ufficiale ma i dirigenti del MSI rifiutarono di testimoniare per non pregiudicare i loro buoni rapporti con le forze dell'ordine.[9] L'ufficiale venne indagato in seguito a una denuncia presentata individualmente in questura da Francesca Mambro.[10]
Anni dopo Francesco Cossiga, all'epoca dei fatti Ministro dell'interno, avrebbe rivelato che l'allora capitano (poi arrivato al grado di generale), dopo aver sparato, sarebbe caduto in stato confusionale e avrebbe temuto ritorsioni per la sua famiglia.[11] In seguito Sivori in base a una perizia balistica[7] fu definitivamente scagionato con sentenza di proscioglimento definitivo nel febbraio del 1983.[12] In un'occasione l'ufficiale sostenne che il colpo che uccise Recchioni fosse stato sparato da brigatisti lì presenti.[13]
Il raid fu rivendicato alcuni giorni dopo tramite una cassetta audio, fatta ritrovare accanto a una pompa di benzina, in cui la voce contraffatta di un giovane, a nome dei Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale, una nuova sigla di gruppo terrorista ignoto fino a quel giorno[14], leggeva il seguente comunicato:
«Un nucleo armato, dopo un'accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larenzia, ha colpito i topi neri nell'esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l'ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga. Da troppo tempo lo squadrismo insanguina le strade d'Italia coperto dalla magistratura e dai partiti dell'accordo a sei. Questa connivenza garantisce i fascisti dalle carceri borghesi, ma non dalla giustizia proletaria, che non darà mai tregua. Abbiamo colpito duro e non certo a caso, le carogne nere sono picchiatori ben conosciuti e addestrati all'uso delle armi.»
Le prime indagini non portarono a conclusioni di rilievo. Il capitano dei Carabinieri Eduardo Sivori[8], inizialmente indagato, fu prosciolto dal giudice istruttore Guido Catenacci il 21 febbraio 1983, con sentenza di proscioglimento definitivo.
Nel 1987, in seguito alle confessioni di una pentita, Livia Todini,[15] si arrivò a individuare cinque responsabili, militanti di Lotta Continua, accusati per il duplice omicidio. Mario Scrocca, Fulvio Turrini, Cesare Cavallari e Francesco de Martiis furono arrestati; Daniela Dolce,[16] ultima accusata, scappò all'arresto fuggendo in Nicaragua.
Scrocca, il giorno dopo essere stato interrogato dai giudici, si tolse la vita in cella in circostanze sospette.[17] Gli accusati furono poi assolti in primo grado per insufficienza di prove.[18]
Una delle armi utilizzate nell'agguato, una mitraglietta Skorpion, fu poi rinvenuta, nel 1988 nel covo delle Brigate Rosse in via Dogali a Milano. Gli esami balistici svelarono che quella stessa arma fu utilizzata in altri tre omicidi firmati dalle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: quello dell'economista Ezio Tarantelli nel 1985, dell'ex sindaco di Firenze Lando Conti nel 1986 e del senatore democristiano Roberto Ruffilli nel 1988.[19][20]
Nel 2013, a seguito di un'interpellanza parlamentare, venne ricostruita la provenienza iniziale dell'arma, che fu originariamente acquistata, nel 1971, dal cantante (e appassionato di armi) Jimmy Fontana, e da questi venduta, nel 1977, a un commissario di polizia,[21] lasciando però ignoto il modo in cui l'arma sia poi giunta nelle mani dei terroristi.[22]
L'agguato di Acca Larenzia contribuì a una degenerazione della lotta politica e dell'odio ideologico tra le opposte fazioni negli anni di piombo, oltre che al mantenimento di uno stato di tensione caratteristico della prima repubblica. Secondo lo storico Giorgio Galli, sarebbe addirittura legittimo il dubbio che l'agguato fosse stato "commissionato" da elementi esterni al terrorismo politico, per dare credito alla teoria degli opposti estremismi[senza fonte].[23]
Per molti militanti neofascisti, le cose cambieranno totalmente dopo quel 7 gennaio 1978: molti di loro, dopo gli avvenimenti di quel giorno, decisero infatti di intraprendere il percorso della lotta armata. Come racconta, ad esempio, Francesca Mambro, militante missina in quegli anni, e futura terrorista dei Nuclei Armati Rivoluzionari, giunta sul posto del doppio omicidio per partecipare al sit-in di protesta:
«Eravamo pochi, ci conoscevamo più o meno tutti. Con Francesco Ciavatta, poi, avevamo militato insieme nel circolo di via Noto. La reazione immediata, mia e di tanti, fu la paralisi, come quando ti muore un parente. Ci guardavamo in faccia senza capire e senza sapere che fare, mentre dalle varie sezioni della città affluivano gli altri. Il Movimento sociale italiano non ebbe alcuna reazione nei confronti dei carabinieri, probabilmente per difendere interessi e posizioni che non avevano nulla a che fare con la nostra militanza. Noi ragazzini venivamo usati per il servizio d'ordine ai comizi di Almirante, quando serviva gente pronta a prendere botte e a ridarle, ma in quell'occasione dimostrarono che se per difenderci bisognava prendere posizioni scomode, come denunciare i carabinieri e il loro comportamento, allora non valeva la pena. Per la prima volta i fascisti si ribellarono alle forze dell'ordine. Acca Larenzia segnò la rottura definitiva di molti di noi con il Msi. Quell'atteggiamento tiepido e imbarazzato nei confronti di chi aveva ucciso Stefano (Recchioni, ndr) significava che erano disposti a sacrificarci pur di non mettersi contro le forze dell'ordine. Non poteva più essere casa nostra. Per la prima volta e per tre giorni i fascisti spareranno contro la polizia. E questo segnò un punto di non ritorno. Anche in seguito, per noi che non eravamo assolutamente quelli che volevano cambiare il Palazzo, rapinare le armi ai poliziotti o ai carabinieri avrà un grande significato. Che lo facessero altre organizzazioni era normale, il fatto che lo facessero i fascisti cambiava le cose di molto, perché i fascisti fino ad allora erano considerati il braccio armato del potere.»
L'agguato di Acca Larenzia viene regolarmente commemorato dai militanti di estrema destra, e in alcuni casi le celebrazioni sono sfociate in ulteriori episodi violenti.
Nel primo anniversario del 10 gennaio 1979, l'agente di polizia in borghese Alessio Speranza uccise il diciassettenne Alberto Giaquinto, che era presente insieme con l'amico Massimo Morsello durante gli scontri con le forze dell'ordine nel quartiere Centocelle a Roma.[25]
Nel corso degli anni, il Comune di Roma ha più volte annunciato di voler intitolare una strada romana alle tre vittime della strage. Nel 2008, in occasione del 30º anniversario, il sindaco Walter Veltroni parlò della dedica come di "un dovere civile per tutta la nostra comunità".[26] Due anni dopo, nel 2010, il nuovo primo cittadino Gianni Alemanno annunciò di voler intitolare il largo prospiciente al teatro dell'agguato con la dicitura "Caduti di Via Acca Larenzia".[27]
Nel 2012, in occasione del 34º anniversario, i militanti dell'ex sede del Movimento Sociale Italiano di Acca Larenzia hanno sostituito la targa commemorativa apposta nel 1978, modificando la dicitura "vittime della violenza politica" con la scritta "assassinati dall'odio comunista e dai servi dello Stato" a cui segue la firma "i camerati", alimentando così le polemiche di alcune associazioni antifasciste e non solo.[28]
Molto controverso poi, il disegno della croce celtica simbolo del FUAN, che si trova al civico 20 di Acca Larentia, angolo via Evandro, tanto per il suo significato che per le sue notevoli dimensioni, tant'è che è visibile anche con Google Maps.[29][30]
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