Ludovico Sforza | |
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Maestro della Pala Sforzesca, Ludovico il Moro, particolare dalla Pala Sforzesca, 1494-1495, Pinacoteca di Brera, Milano | |
Duca di Milano | |
In carica | 1480 – 1494 (reggente) 1494 – 1499 (titolare) |
Incoronazione | 1480 |
Predecessore | Gian Galeazzo |
Successore | Ducato passato a Luigi XII di Francia |
Duca di Bari | |
In carica | 1479 – 1499 |
Predecessore | Sforza Maria Sforza |
Successore | Isabella d'Aragona |
Signore di Genova | |
In carica | 1494 – 1499 |
Predecessore | Gian Galeazzo III Maria |
Successore | Luigi XII di Francia |
Altri titoli | Duca di Bari (1479–1500) |
Nascita | Milano, Ducato di Milano, 27 luglio o 3 agosto 1452 |
Morte | Loches, Regno di Francia, 27 maggio 1508 |
Casa reale | Sforza |
Padre | Francesco Sforza |
Madre | Bianca Maria Visconti |
Consorte | Beatrice d'Este |
Figli | da Beatrice d'Este Massimiliano Francesco da Bernardina de Corradis |
Religione | Cattolicesimo |
Motto | Merito et tempore |
Firma |
Ludovico Maria Sforza detto il Moro (Milano, 27 luglio o 3 agosto 1452 – Loches, 27 maggio 1508) è stato duca di Bari dal 1479, reggente del Ducato di Milano dal 1480 al 1494 affiancando il nipote Gian Galeazzo Maria Sforza e infine duca egli stesso dal 1494 al 1499, essendo al contempo signore di Genova.[2]
Durante il suo governo Milano conobbe il pieno Rinascimento e la sua corte divenne una delle più splendide d'Europa. Patrono di Leonardo da Vinci e di altri artisti di rilievo della sua epoca commissionò a Leonardo l'Ultima Cena.
Ludovico Maria Sforza nacque verosimilmente il 3 agosto 1452 a Milano, presso il palazzo del Broletto Vecchio, quarto figlio maschio e quintogenito di Francesco Sforza e di Bianca Maria Visconti. Il luogo e la data di nascita non sono certi, in quanto le fonti storiche non sono concordi: Bernardino Corio la pone a Vigevano il 27 luglio 1451, mentre un codice quattrocentesco l'8 agosto 1451[3]. In una prima lettera autografa, scritta all'età di 11 anni[4], il Moro la fissa al 27 luglio 1452 e in una seconda, redatta all'età di 15 anni[5] e più precisa della precedente, al 3 agosto 1452.
Subito dopo averlo partorito, la madre Bianca scrisse al marito pregandolo che volesse degnarsi di trovare al neonato un bel nome, acciocché compensasse in parte "alla figura del puto che mi è il più sozo di tutti gli altri"[6][7], intendendo probabilmente dire che già alla nascita Ludovico si fosse rivelato di carnagione particolarmente scura.
Ludovico si guadagnò forse sin da bambino il soprannome di "Moro". Così lo acclamava la folla quando sfilava in corteo nelle città del Ducato. Esistono differenti interpretazioni riguardanti il motivo di questa scelta:
Pur essendo il figlio quartogenito e senza quindi grandi speranze di salire alla dignità ducale, la madre Bianca volle che fosse educato all'insegna dello spirito rinascimentale e che ricevesse quindi una vasta cultura, soprattutto nel campo delle lettere classiche. Sotto la tutela di molti precettori, tra i quali l'umanista Francesco Filelfo e il poeta Giorgio Valagussa, Ludovico ricevette lezioni di greco, latino, teologia, pittura, scultura, oltre ad essere istruito nelle questioni di governo e amministrazione dello stato. Agli studi umanistici si alternava l'esercizio fisico sotto forma della scrima, della caccia, della lotta, dell'equitazione, del salto, della danza e del gioco della pallacorda.[11]
Cicco Simonetta lo descrive come il più versato e rapido nell'apprendimento tra i figli di Francesco Sforza che, come pure Bianca, mostrava per lui una particolare attenzione, testimoniata dall'ampia corrispondenza. A soli sette anni, a Mantova, accolse con la madre e i fratelli papa Pio II in visita alla città, facendo la propria prima uscita pubblica in un'occasione ufficiale. A undici anni dedicò un'orazione in latino a suo padre.[5] Versato anche nella caccia e nell'arte militare, il 2 giugno 1464 ricevette dal padre Francesco e su incitazione di Pio II il comando di un corpo composto di 1 000 fanti e 2 000 cavalieri.
Quando il padre Francesco morì, nel 1466, il primogenito Galeazzo Maria, fratello maggiore di Ludovico, divenne duca. Concesse una corte personale e duemila ducati di rendita a ciascuno dei fratelli, oltre a molti feudi. Ludovico divenne conte di Mortara e Brescello e signore di Pandino, Villanova, Scurano, Bassano[non chiaro], Meletole, Oleta e delle Valli di Compigino, con cento lance[12] e seicento cavalli al suo servizio, divisi in quattro squadre[13].
Dopo dieci giorni, Ludovico era già a Cremona per mantenere unite le terre del ducato e incoraggiare gli abitanti della città a tributare omaggi di fedeltà al nuovo duca. Nel settembre di quello stesso anno, però, cadde malato di "febbre terzana", dalla quale venne prontamente curato grazie all'intervento del medico di corte Guido Perati, assistito da Giacomo da Gallarate e Filippo da Novara.
Continuò a occuparsi di missive diplomatiche, rimanendo a Cremona sino all'anno successivo, quando si recò a Genova per accogliere la sorella Ippolita Maria Sforza, moglie di Alfonso d'Aragona, ricevendo quello stesso anno il titolo di conte di Mortara. Il 6 giugno 1468 Ludovico fu di nuovo a Genova per accogliere Bona di Savoia, che ivi giunse il giorno 26 giugno. Fu lui a scrivere al duca della bellezza della consorte e la scortò insieme al fratello Tristano sino a Milano dove, il 7 luglio, ebbero luogo le nozze col duca Galeazzo Maria. Fu ancora ambasciatore poi presso il re di Francia e poi a Bologna. Nel gennaio del 1471 si recò a Venezia, per conto del duca, con un ricco corteo e vi pronunciò un discorso molto ben accolto dal doge e che contribuì a migliorare le reazioni diplomatiche tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia. Nel marzo 1471 accompagnò Galeazzo Maria nel suo fastoso viaggio a Firenze, passò nell'agosto dello stesso anno a Roma per l'incoronazione di papa Sisto IV e poi in settembre alla corte di Torino.
Nel 1476 venne inviato in Francia insieme al fratello Sforza Maria, in una sorta di camuffato esilio, dove, il giorno di Natale, venne ricevuto dal sovrano presso il castello di Tours.
Dopo l'assassinio del duca suo fratello a Milano, il 26 dicembre 1476, sul trono del ducato gli succedette il figlio Gian Galeazzo Maria Sforza, allora di soli sette anni. Ludovico ritornò frettolosamente dalla Francia non appena ricevuta conferma della notizia. La duchessa gli assegnò quale residenza milanese la Cà di Can, precedentemente appartenuta a Bernabò Visconti, e un assegno annuo di 12.500 ducati.
In seguito, con l'aiuto dei fratelli Sforza, Ascanio, Ottaviano e degli amici Ibletto Fieschi e Donato del Conte, tentò di opporsi alla reggenza di Bona di Savoia, madre di Gian Galeazzo Maria, non tanto perché egli volesse opporsi alla condotta della donna, quanto perché il ducato era in quegli anni nelle mani del consigliere ducale Cicco Simonetta. Ludovico e il fratello cercarono di sconfiggerlo con una congiura ai danni del governo milanese, ma il loro tentativo fallì. Ludovico fu esiliato a Pisa, Sforza Maria a Bari, Ascanio a Perugia, Ottaviano tentò di guadare l'Adda in piena ma vi morì annegato, Donato del Conte fu imprigionato nei "forni"[14] e Ibletto Fieschi nel Castello Sforzesco.
Nel febbraio del 1479 il Moro e il fratello Sforza Maria, indottivi da Ferdinando I di Napoli, entrarono con un esercito nella Repubblica di Genova, dove si unirono a Roberto Sanseverino e Ibletto Fieschi. Bona di Savoia e Cicco Simonetta convinsero Federico Gonzaga ed Ercole d'Este a radunare un esercito e venire in soccorso del Ducato dietro il pagamento di una ingente somma di denaro, mentre un secondo esercito, alla guida di Roberto Malatesta e Costanzo Sforza, appoggiando i fiorentini, avrebbe fronteggiato le truppe del pontefice e quelle napoletane. Il 1º marzo il Moro e il fratello vennero dichiarati ribelli e nemici del Ducato e vennero loro revocate le entrate che percepivano in virtù della dote materna. Dopo aver compiuto saccheggi nel pisano, i due tornarono a La Spezia. Già a metà maggio, tuttavia, si stabilirono trattative di pace tra le due parti.
Il 29 luglio Sforza Maria Sforza morì in un accampamento presso Varese Ligure, secondo molti avvelenato su commissione di Cicco Simonetta, secondo altri di morte naturale (di polmonite o per la "soverchia pinguedine"[15]), e Ferrante di Napoli nominò il Moro duca di Bari.
Il 20 agosto Ludovico riprese la marcia alla volta di Milano alla testa di un esercito di 8 000 uomini, attraversando il Passo di Centocroci e risalendo la Valle Sturla. Il 23 agosto prese la cittadella di Tortona dopo aver corrotto il castellano Rafagnino Donati. Risalì poi per Sale, Castelnuovo Scrivia, Bassignana e Valenza.
Dopo questi successi il Simonetta inviò Ercole d'Este, duca di Ferrara, a fermare il Moro con le armi; tuttavia molti nobili vicini al duca spingevano per una riconciliazione e così il 7 settembre, grazie all'intercessione di Antonio Tassino, giovane amante della duchessa Bona il quale un tempo serviva a mensa come scalco, il Moro fece ingresso a Milano e fu ospitato nella corte del castello. Il Simonetta, conoscendo la scaltrezza del Moro, si oppose fermamente alla riconciliazione e profetizzò a Bona che, così facendo, "io perderò la testa, e voi in processo di tempo perderete lo stato". La permanenza del Moro a Milano permise di evitare lo scontro armato tra il suo esercito e quello del duca di Ferrara.
La nobiltà ghibellina milanese, che aveva quale riferimento Pietro Pusterla, sfruttò però la sua venuta per cercare di convincerlo a liberarsi del Simonetta, rammentandogli tutte le sofferenze ch'egli e i suoi fratelli avevano dovuto patire per causa di Cicco, l'esilio, la guerra, la morte di Ottaviano e in ultimo l'avvelenamento di Sforza Maria,[16] cui Ludovico era sempre stato legatissimo.[17] Egli però non ritenne Cicco un pericolo e non giudicava necessario condannare a morte un uomo ormai parecchio anziano e per di più malato di gotta.[16] Pertanto Pietro Pusterla fece imprigionare Orfeo Aricca e cercò appoggio nei marchesi di Mantova e del Monferrato nonché in Giovanni Bentivoglio[non chiaro] e Alberto Visconti, progettando una rivolta armata contro il segretario ducale.
Il Moro, informato dell'andamento della situazione, fu costretto a imprigionare Cicco insieme ai suoi familiari e presto le proprietà milanesi del segretario ducale furono saccheggiate. Qualche giorno dopo Cicco e il fratello Giovanni furono trasferiti su un carro nelle prigioni del castello di Pavia sotto la sorveglianza del prefetto Giovanni Attendolo, Orfeo Aricca fu imprigionato nel castello di Trezzo, mentre gli altri famigliari furono rilasciati. Ercole d'Este, considerando ormai il Ducato nelle mani del Moro, tornò rapidamente a Ferrara.[18]
Ottenuto il potere, il Moro richiamò a Milano il fratello Ascanio Sforza e Roberto Sanseverino; poi inviò oratori per stringere o risaldare alleanze con Lorenzo de' Medici e Ferdinando I di Napoli nonché con papa Sisto IV e prevenne un'alleanza ai suoi danni tra gli svizzeri e la Repubblica di Venezia. La pace tra Milano, Firenze, Roma e Napoli, conclusa a dicembre, fu possibile grazie all'abilità politica dimostrata da Lorenzo nel suo viaggio a Napoli (suggerito dal Moro) e all'intermediazione di Ippolita Maria Sforza, che fece in modo da una parte di mantenere l'alleanza tra Milano e Firenze e dall'altra di evitare la caduta di Lorenzo, trattenuto per tre mesi dal re di Napoli. Alla fine di febbraio del 1480 giunsero a Milano gli ambasciatori di Sigismondo d'Austria per chiedere la liberazione del Simonetta, ma non poterono essere accontentati.
Nel frattempo la nobiltà ghibellina, pur avendo aiutato il Moro nella sua scalata al potere, gli era divenuta sempre più invisa e aveva trovato in Ascanio Sforza il difensore dei suoi interessi. Il Moro, persuaso dal Sanseverino, ordinò l'arresto del fratello e il suo esilio a Ferrara. Furono esiliati anche Pietro Pusterla, Giovanni Borromeo, Antonio Marliani e molti altri illustri esponenti della fazione ghibellina. In aprile si ruppe l'alleanza stipulata pochi mesi prima, dal momento che Sisto IV si alleò con i veneziani attaccando Costanzo Sforza a Pesaro; il Moro inviò Roberto Sanseverino in aiuto dei fiorentini, mentre Ferdinando di Napoli inviò truppe a supporto di Costanzo e il figlio Alfonso, duca di Calabria, riuscì a catturare Siena con l'aiuto dei ghibellini senesi scacciando i guelfi, ma fu poi richiamato in patria a causa della brutale conquista di Otranto da parte dell'Impero ottomano. La minaccia turca pose fine alle ostilità in Toscana e il 1º ottobre il Sanseverino tornò a Milano. Il Moro richiamò il fratello e i nobili milanesi esiliati pochi mesi prima, che lo convinsero a giustiziare il Simonetta.
Il Moro affidò l'istituzione del processo a Giovanni Antonio Aliprandi, che in passato era stato torturato dal Simonetta, nonché il capitano di giustizia Borrino Colla, il giureconsulto Teodoro Piatti e l'avvocato Francesco Bolla, tutti notoriamente avversi all'ex-segretario ducale, in modo da assicurarsene la colpevolezza. Al Simonetta fu chiesto di pagare 50 000 ducati per sottrarsi alla condanna a morte, ma questi rifiutò, adducendo di aver accumulato le proprie ricchezze nel tempo per garantire un futuro ai figli e che non avesse alcun senso da parte propria, ormai vecchio e malato, privarli di tanto pur di vivere qualche mese di più. Il 29 ottobre il Simonetta fu processato, dichiarato colpevole e il giorno successivo decapitato presso il rivellino del castello di Pavia prospiciente il Parco Visconteo. Fu poi onorevolmente tumulato nel chiostro della chiesa di Sant'Apollinare, andata distrutta nel 1525 durante la battaglia di Pavia. Il fratello Giovanni fu trasferito in una cella a Vercelli.
La morte del Simonetta tolse di mezzo il principale avversario di Antonio Tassino, che divenne sempre più arrogante. Il Corio racconta che, quando il Moro o altri nobili milanesi andavano a fargli visita, era solito farli aspettare a lungo fuori dalla porta finché non aveva finito di pettinarsi. Il Tassino riuscì a convincere Bona, ormai succube dell'uomo, a sostituire Filippo Eustachi, prefetto del castello di Porta Giovia, con suo padre Gabriello, ricorrendo all'intermediazione di Giovanni Botta. Il prefetto non si fece corrompere e mantenne il giuramento fatto al defunto duca Galeazzo Maria Sforza di mantenere il castello fino al raggiungimento dell'età di 24 anni da parte del figlio Gian Galeazzo Maria. Il Tassino fu fatto arrestare dal Moro per mano di Ermes Sforza ed esiliato a Ferrara, sua città d'origine, in cambio di una grossa somma di denaro. Quando Bona di Savoia fu informata dell'esilio del favorito andò su tutte le furie. Il 3 novembre 1480 Ludovico il Moro fu nominato reggente del ducato, nonché tutore del giovane duca Gian Galeazzo Maria, dai giuristi Francesco Bolla e Candido Porro.[19]
Nel 1481, forse per mandato di Bona, ci fu un tentativo di avvelenamento di Ludovico e di Roberto Sanseverino perpetrato da Cristoforo Moschioni, a sua volta istigato dal segretario della duchessa Luigi Becchetti e dal medico Ambrogio Grifi. Il Moschioni fu giudicato innocente. Lo stesso anno ci fu una seconda congiura progettata da Bona ai danni di Ludovico, ma ancora una volta fallì. La duchessa cercò di fuggire in Francia, ma il Moro la costrinse ad una prigionia dorata nel castello di Abbiategrasso, assegnandole una pensione di 25 000 ducati; l'intercessione del Regno di Francia e del Ducato di Savoia le permisero di evitare il processo.
Nel settembre del 1480 Ludovico aveva avviato una trattativa con Ercole d'Este per ottenere la mano della figlia primogenita Isabella. Il fidanzamento non fu possibile perché pochi giorni prima il padre l'aveva già promessa in sposa, all'età di sei anni, a Francesco Gonzaga, marchese di Mantova. Al Moro fu dunque proposta la secondogenita Beatrice, di un anno di meno, ed egli non esitò ad accettarla, rispondendo che sarebbe stato contento dell'una come dell'altra figlia.[20] Il fidanzamento anzi si prospettava ancor più conveniente, in quanto Beatrice viveva in quel tempo presso la corte aragonese di Napoli, cresciuta come una figlia dal re Ferrante suo nonno, che le era affezionatissimo[21], e ciò avrebbe dunque significato per Ludovico un'alleanza anche col re di Napoli oltre che col duca di Ferrara. Consultato sulla questione delle nozze, lo stesso Ferrante accettò il fidanzamento della nipote col Moro e in quel medesimo anno si tennero gli sponsali fra i due.[22] Le nozze vere e proprie si sarebbero tenute solo nel 1491, ma già a partire da allora Beatrice iniziò a essere chiamata sua moglie, a firmarsi duchessa di Bari e a legare i capelli come una donna sposata.[21] Successivamente, per un motivo o per un altro, Ludovico non vorrà più che la sposa sia allevata a Napoli e così nel 1485 Beatrice avrebbe fatto ritorno a Ferrara presso la corte paterna.[23]
Alla fine di ottobre Roberto Sanseverino, sdegnato e geloso della vicinanza al Moro di Filippo Eustachi e Pallavicino Pallavicini, pretese un aumento di stipendio per continuare a svolgere il ruolo di capitano generale dell'esercito milanese e ottenuto un rifiuto si ritirò nel suo feudo di Castelnuovo Scrivia e iniziò a complottare contro i due con l'aiuto di Pietro Dal Verme, signore di Voghera e di Pier Maria II de' Rossi, signore di San Secondo e appartenente ad una famiglia, i Rossi di Parma, storicamente ostile ai Pallavicini. I fiorentini e i napoletani esortarono il Sanseverino a tornare al servizio del duca, il quale a sua volta gli chiese di comparire al suo cospetto entro tre giorni, ma questi si rifiutò. Nel gennaio del 1481 Sanseverino venne dichiarato ribelle e il Moro gli inviò contro un esercito di 2 000 fanti e 4 000 cavalieri al comando di Costanzo Sforza. Iblietto Fieschi giunse dal genovese con un esercito in supporto del Sanseverino, ma fu pesantemente sconfitto da Costanzo Sforza. Presto il Sanseverino fu abbandonato da Pietro dal Verme e dagli altri suoi sostenitori e trovandosi ormai isolato fu costretto a fuggire a Venezia. Il figlio Gaspare Sanseverino, detto Fracassa, fuggì in Francia, ma le mogli di entrambi e il figlio Alessandro furono condotti prigionieri a Milano.
Nel 1482 i Rossi furono estromessi dal consiglio degli anziani di Parma e, dopo aver stipulato un'alleanza con i veneziani, che si impegnavano a supportarli economicamente, si ribellarono all'autorità ducale.
Costanzo Sforza allora fu inviato nei pressi di San Secondo e vi pose l'assedio, ma fu presto sollevato dal comando dal Pallavicino, che non vedeva di buon occhio le sue buone relazioni con Pier Maria de' Rossi; al suo posto furono nominati Sforza Secondo Sforza, Giampietro Bergamino e Gian Giacomo Trivulzio. Il 2 settembre 1482 morì Pier Maria II de' Rossi e gli subentrò il figlio Guido de' Rossi. Nel maggio del 1483 l'esercito sforzesco, guidato dal Moro, entrò di nuovo nel parmigiano e Guido de' Rossi, non potendo sconfiggerlo, si rifugiò in Liguria con 600 uomini. I milanesi, grazie alle numerose bombarde, catturarono rapidamente molte cittadine e castelli, tra cui Felino, Torricella e Roccabianca. La rocca di San Secondo si arrese definitivamente solo il 21 giugno 1483. La vittoria milanese in questa guerra rappresentò la fine dell'egemonia dei Rossi nel parmigiano.[24]
Nel maggio del 1482 la Repubblica di Venezia sfruttò la Guerra dei Rossi in cui era impegnato il Ducato di Milano per aprire un nuovo fronte contro il Ducato di Ferrara, supportata dai pontifici e dai genovesi. Qualche mese prima, infatti, i ferraresi, su pressione del Moro, avevano impedito l'attraversamento delle loro terre da parte dell'esercito veneziano che si stava recando in soccorso dei Rossi. Questo miglioramento nei rapporti tra milanesi e ferraresi era dovuto al fidanzamento tra il Moro e Beatrice, secondogenita di Ercole d'Este, raggiunto nella primavera del 1480, come spiegato sopra. I veneziani infatti miravano, oltre ad espandere il proprio territorio sulla terraferma, ad assumere il controllo delle saline di Comacchio, che rappresentavano una delle entrate principali degli Este. Radunato un esercito di 12 000 fanti e 5 000 cavalieri, nominarono comandante Roberto Sanseverino, che presto assediò Rovigo con la costruzione di due bastìe.
Il Moro si incontrò a Cremona con Federico da Montefeltro, nominandolo capitano dell'esercito che inviò contro i veneziani; le truppe fiorentine, guidate da Costanzo Sforza, attaccarono e presero Città di Castello, mentre Ferdinando I di Napoli inviò Alfonso di Calabria contro il papa con un esercito di 6 000 fanti e 6 000 cavalieri che si accampò a sole cinque miglia da Roma. Si aprì poi un quarto fronte nel parmigiano che vide contrapposti i mantovani, guidati da Federico Gonzaga e i genovesi da Giovanni Bentivoglio. Il 29 giugno, dopo un mese di assedio, i veneziani riuscirono a catturare Ficarolo, poi Argenta e quindi risalirono il Po con l'esercito e con la flotta, puntando su Ferrara.
Il 21 agosto 1482 le truppe napoletane furono pesantemente sconfitte dai pontifici nella battaglia di Campomorto. Il 10 settembre morì Federico da Montefeltro; perciò il Moro, conclusa la guerra dei Rossi, inviò le truppe ivi impegnate nel ferrarese alla guida di Sforza Secondo Sforza, che però fu sconfitto nella battaglia di Argenta, con tanto di cattura di molti dei comandanti. Il 2 novembre 1482 Roberto Sanseverino e il figlio Gaspare devastarono il parco che Ercole d'Este aveva poco fuori città e si accamparono a quattro miglia dalle mura di Ferrara. Ercole si ammalò gravemente, tanto che molti lo credettero morto e la moglie Eleonora d'Aragona assunse il governo dello stato, preparando la difesa della città. Nel frattempo Sforza Secondo riuscì a sconfiggere i veneziani sul Po, catturando circa trenta galee.
Consapevole che molti ormai credevano che il duca fosse morto, Eleonora ammise nella camera del marito ammalato tutti coloro fra il popolo che volessero vederlo, o secondo altre fonti lo fece affacciare da un balcone del castello (ma è assai improbabile che fosse in grado di reggersi in piedi), il che contribuì a infondere coraggio nei cittadini e ben presto 25 000 ferraresi si dedicarono alla difesa della città, riuscendo infine a respingere i veneziani che furono costretti a ritirarsi a Ficarolo.
Il 6 gennaio 1483 Sisto IV abbandonò l'alleanza con i veneziani passando dalla parte di Milano, Ferrara, Firenze e Napoli e la nuova lega si trovò a Mantova per discutere di una nuova guerra contro i veneziani. Nel marzo l'esercito della lega, guidato da Alfonso di Calabria, sconfisse i veneziani a Massafiscaglia. Non potendo fronteggiare da soli le forze della lega, i veneziani chiesero aiuto al duca di Lorena, nominandolo generale di uno dei due eserciti, essendo l'altro guidato da Roberto Sanseverino. Il primo fu inviato di nuovo nel ferrarese, il secondo nel bresciano. Alfonso d'Aragona riuscì a sconfiggere i veneziani a Bondeno. In seguito alla sconfitta, Galeazzo Sanseverino, figlio di Roberto, si mise al servizio dei milanesi, il primogenito Giovanni Francesco degli aragonesi e Sisto IV emise un interdetto contro i veneziani.
Questi, per mezzo di Costanzo Sforza, che era passato al loro soldo, escogitarono un piano per fare in modo che la nobiltà milanese convincesse il duca ad abbandonare la lega. Per fare ciò contattarono Luigi Becchetto, nobile milanese ed ex-segretario di Bona di Savoia, che a sua volta informò Vercellino Visconti, prefetto del castello di Trezzo, di non opporre resistenza al passaggio delle truppe di Roberto Sanseverino. Il 15 luglio il Sanseverino attraversò l'Adda su un ponte di barche e fece fortificare il ponte con due bastìe. Malgrado il successo non ci furono rivolte; al contrario il Moro si incontrò a Cremona con Alfonso d'Aragona e altri rappresentanti della lega e deliberarono di contrattaccare subito i veneziani. Il 22 luglio Alfonso radunò a Monza l'esercito della lega, forte di 5 000 fanti e 6 000 cavalieri e il Sanseverino, rendendosi conto che l'operazione era ormai fallita, il giorno successivo si ritirò nella bergamasca. Il 27 luglio Alfonso attraversò l'Adda a Cassano, quindi passò il Fosso Bergamasco invadendo il territorio veneziano e catturando in pochi giorni diversi castelli alla cui difesa fu lasciato Alberto Visconti con 300 fanti e 400 cavalieri.
Il 28 luglio i brianzoli, guidati da Gabriele Calco, assaltarono vittoriosamente le bastìe, assumendo il controllo del ponte di Trezzo, per poi saccheggiare la Valle San Martino. L'8 agosto Alfonso d'Aragona passò l'Oglio, entrando nel bresciano e incontrandosi con Girolamo Riario e il cardinale di Mantova. Il 10 agosto il Moro e il fratello Ascanio marciarono alla testa di un esercito di 2 000 fanti e 4 000 cavalieri nella bergamasca, costringendo alla resa molti castelli e minacciando la stessa Bergamo, per poi catturare Romano dopo tre giorni d'assedio. Nel frattempo Ercole d'Este, sfruttando la debolezza dei veneziani, riuscì a catturare parte dei territori che gli erano stati sottratti nel ferrarese. All'inizio di settembre Alfonso d'Aragona passò il Mincio con 12 000 cavalieri, 5 000 fanti e 400 balestrieri e saccheggiò le campagne veronesi; poi il 26 settembre assediò Asola, che cadde dopo otto giorni e venne ceduta a Federico Gonzaga. I veneziani nel frattempo erano molestati nell'Adriatico da una flotta di galee pontificie e aragonesi e subirono la defezione dei genovesi e del duca di Lorena. Per cercare di contenere l'avanzata dell'esercito della lega inviarono 4 000 cavalieri e 2 000 fanti al comando di Roberto Sanseverino. Malgrado i ripetuti successi, nessuno degli eserciti della lega sfruttò la debolezza veneziana per infliggere un colpo decisivo; infatti il Moro, dopo aver catturato Romano, tornò a Milano, mentre Alfonso d'Aragona, dopo aver catturato Asola, si diresse verso Ferrara e poi in novembre a Cremona.[25]
Il 24 aprile 1484 un consiglio di guerra dei principali esponenti della lega anti-veneziana, riunitosi nel castello di Porta Giovia, deliberò di proseguire la guerra contro la Repubblica di Venezia. Il giorno successivo Alfonso d'Aragona marciò verso Cremona, seguito dieci giorni dopo dal Moro. In giugno le truppe milanesi e aragonesi si unirono a quelle mantovane e ferraresi, formando un esercito di 6.600 fanti e 13.400 cavalieri che invase il bresciano, mentre i brianzoli invadevano e saccheggiavano ancora una volta la Valle San Martino. I veneziani opposero alla lega un esercito di 5 000 fanti e 6 000 cavalieri al comando di Roberto Sanseverino. Il 15 luglio morì Federico I Gonzaga e il marchesato di Mantova passò a Francesco II Gonzaga. La morte del Gonzaga creò dissidi tra Alfonso d'Aragona, che voleva che il mantovano passasse al genero, e il Moro, che agognava al possesso di Mantova, riteneva ingiusto che nell'eventualità della caduta di Verona questa passasse al Gonzaga e a cui la guerra in favore di Ercole d'Este era costata una gran somma di denaro. I veneziani sfruttarono le divisioni, convincendo il Moro a porre fine alle ostilità in cambio di una certa somma di denaro a patto che il Polesine restasse in mano loro. Il 7 agosto a Bagnolo fu stipulata la pace tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia, per lo sdegno degli altri membri della lega.[26]
Nel dicembre 1483 un gruppo di congiurati, composto da Luigi Vimercati, Pietro Pasino Eustachi e Guido Eustachi (fratello di Filippo, prefetto del castello di Porta Giovia), tutti fedeli alla duchessa Bona di Savoia, congiurarono per uccidere il Moro, dal momento che questi aveva ingiuriato un certo Sant'Angelo, stipendiato del castello, e poiché ritenevano che volesse soppiantare il legittimo duca. Il 7 dicembre 1483, festa di Sant'Ambrogio, i congiurati si appostarono presso il portone principale della basilica dedicata al patrono della città. Il corteo di Ludovico, però, avvedendosi della grande folla di persone che si era assiepata davanti all'entrata principale, preferì farlo entrare da una porta secondaria. Dopo il fallimento di questo primo tentativo, Luigi Vimercati si appostò presso una delle porte del castello, attendendo l'uscita del Moro che era solito attraversarla ogni mattina per far visita a Filippo Eustachi e al Pallavicino. Il Moro chiese dell'Eustachi, ma gli fu risposto che stava pranzando; pertanto tornò indietro dirigendosi alle sue stanze, tallonato dal Vimercati, il quale lo seguì con la scusa di dovergli parlare di alcune questioni importanti. Giunto in un salone, i famigli del Moro si accorsero della lama del Vimercati a causa del riflesso provocato dalla luce di un camino e lo avvertirono. Presto il Vimercati fu catturato e imprigionato. Il 27 febbraio 1484 venne decapitato su un patibolo eretto davanti al castello; fu poi squartato e le quattro parti furono appese ad altrettante porte della città. Pasino fu frustato e incarcerato a vita a Sartirana; per volontà del Moro ad ogni successiva festa di Sant'Ambrogio avrebbe ricevuto due frustate per ricordargli il tradimento. Guido Eustachi fu licenziato.[27]
Nel 1484 gli svizzeri del Vallese, al comando di Jost von Silenen, vescovo di Sion, invasero la Val d'Ossola, saccheggiandola sino a Domodossola, nel contesto di alcune dispute di confine con i paesi del novarese. In seguito a questa offensiva, gli altri cantoni svizzeri condannarono il vescovo al pagamento di una somma di denaro, dal momento che i novaresi lo accusavano di essersi spinto a rapinare arredi sacri dalle chiese ossolane. Nel febbraio del 1487 gli svizzeri attaccarono la Valtellina, occupando Bormio, ed effettuarono operazioni di rapina in tutta la valle finché non furono cacciati dall'esercito sforzesco e costretti a stipulare una pace, alla quale però non aderì il Vallese. Nell'aprile dello stesso anno Jost von Silenen invase ancora una volta la Val d'Ossola con un esercito di 4 500-5 000 uomini e assediò il castello che si trovava sul colle Mattarella a protezione della città. La guarnigione, comandata da Zenone da Lavello, riuscì a contenere il nemico ed inviare una richiesta d'aiuto a Milano.
Il Moro inviò in soccorso un esercito di 3 000 fanti, 1.500 cavalieri e 100 balestrieri a cavallo al comando di Renato Trivulzio e Giberto Borromeo. L'esercito sforzesco riuscì a sconfiggere i presidi lasciati dagli svizzeri a difesa dei guadi sul fiume Toce, a sollevare l'assedio del colle Mattarella, costringendo il nemico a ritirarsi verso Crevola e ad entrare a Domodossola, per poi coordinare le successive mosse con la guarnigione ivi presente. Nel frattempo i milanesi furono informati del fatto che un contingente di circa 1 000 svizzeri, dopo aver depredato la Val Vigezzo, stava cercando di riunirsi al grosso dell'esercito. Subito furono inviati i cavalleggeri e i balestrieri a cavallo al fine di rallentarli in attesa dell'arrivo della fanteria. Gli svizzeri assunsero la tipica formazione difensiva a quadrato ma, essendo tormentati dai balestrieri milanesi, ruppero le righe cercando di inseguirli.
Quando la fanteria milanese giunse sul posto riuscì a circondare gli svizzeri che, non più in formazione, furono annientati. Sorte peggiore ebbero i superstiti, che vennero fatti a pezzi dai valligiani o morirono di fame dispersi tra i monti. Eliminato questo secondo contingente, gli sforzeschi assaltarono il ponte di Crevola, dove gli svizzeri opposero una strenua resistenza finché alcuni gruppi di fanti e cavalleggeri milanesi, una volta guadato il fiume più a monte, li sorpresero alle spalle costringendoli alla fuga. Al termine della battaglia gli svizzeri ebbero 1 000 morti e almeno altrettanti feriti, pari a circa un terzo delle loro forze. Dopo la battaglia di Arbedo del 1422, quella di Crevola fu la peggiore, nonché l'unica, sconfitta subita dagli svizzeri dalla nascita della Vecchia Confederazione. Il 23 luglio 1487 la Vecchia Confederazione stipulò un nuovo trattato di pace con il Ducato di Milano.[28]
Temendo soprattutto la potenza della confinante Venezia, il Moro mantenne alleanze proficue con la Firenze di Lorenzo il Magnifico, con Ferdinando I re di Napoli e con papa Alessandro VI. La nipote di Ferdinando, Isabella d'Aragona, andò sposa a Gian Galeazzo Maria Sforza, mentre il fratello di Ludovico, Ascanio, venne creato cardinale. Nel 1486 Ludovico diede il proprio sostegno a Ferdinando I di Napoli per contrastare la congiura dei baroni e ne ricevette in cambio il collare dell'Ordine dell'Ermellino. Nel 1487 giunse a Milano il legato di Mattia Corvino, re d'Ungheria, per effettuare il contratto di matrimonio tra Giovanni, figlio naturale del re, e Bianca Maria Sforza, figlia del defunto duca Galeazzo. Il matrimonio non fu mai celebrato, dal momento che Mattia morì nel 1490 e divenne re Ladislao II di Boemia.
Il 24 novembre 1488 il Moro inviò a Napoli Ermes Sforza, accompagnato da un gran seguito di nobili milanesi, per prelevare Isabella d'Aragona in vista del suo matrimonio con il nipote Gian Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano. Isabella giunse via nave a Genova il 17 gennaio 1489, dove restò per una settimana, poi partì alla volta di Vigevano, fece tappa ad Abbiategrasso e quindi percorse il Naviglio Grande su una galea, giungendo a Milano il 1º febbraio. La coppia si sposò il giorno successivo nel duomo di Milano.
Il 31 dicembre 1489 Galeazzo Sanseverino si sposò con Bianca Giovanna Sforza, figlia naturale e prediletta del Moro, avuta dall'amante Bernardina de' Corradis.[29]
Nel 1487 il doge Paolo Fregoso indisse un consiglio generale, esortando i genovesi a mettersi ancora una volta sotto la protezione del Ducato di Milano per cercare di porre fine a nove anni di lotte intestine alla città e potersi difendere dagli attacchi dei fiorentini. Furono dunque inviati oratori a Milano, che vennero ricevuti dal Moro e giurarono fedeltà al duca Gian Galeazzo Maria. In seguito alla dedizione i fiorentini terminarono le ostilità contro i genovesi. La Repubblica di Genova sarebbe rimasta sotto la signoria sforzesca sino al 1499. Il 23 agosto i genovesi inviarono dodici ambasciatori a Milano per la conferma dei loro capitoli, ma il Moro non poté riceverli essendo gravemente malato. Il vuoto di potere creato dalla sua infermità portò ai primi disordini tra guelfi e ghibellini, che furono però contenuti dalla diplomazia di Ascanio Sforza, giunto da Roma per far visita al fratello, e in seguito dal ritorno in salute del Moro.
Nell'agosto del 1488 Ibletto Fieschi e Battistino Fregoso entrarono a Genova e costrinsero Paolo Fregoso a ritirarsi nel Castelletto e a difendersi dagli aggressori a colpi di bombarda. Il Moro, per sedare la rivolta, inviò un esercito al comando di Gianfrancesco Sanseverino che costrinse i rivoltosi ad abbandonare le armi. Il 31 ottobre sedici oratori genovesi riconfermarono la dedizione, giurando fedeltà al duca di Milano e presentandogli il vessillo di San Giorgio, lo scettro e le chiavi della città. Agostino Adorno fu nominato nuovo governatore di Genova in luogo di Paolo Fregoso. Il Moro riuscì ad ottenere dai Fregoso anche Savona sotto il pagamento di 4 000 ducati all'anno e con la promessa di matrimonio tra Chiara Sforza, figlia di Galeazzo e Fregosino Fregoso, figlio di Paolo, il quale sarebbe dovuto diventare doge dopo di lui per conto del Ducato. Quale governatore di Savona fu nominato Zenone da Lavello, che si era distinto l'anno prima nella battaglia di Crevola difendendo Domodossola.[30]
Il 14 aprile 1488 gli Orsi, nobili forlivesi, dopo aver congiurato a lungo contro Girolamo Riario, nipote di Sisto IV e signore di Forlì, riuscirono ad intrufolarsi nel Palazzo Comunale della città ed a ucciderlo a coltellate, per poi gettarlo da una finestra e lasciare che il popolo facesse scempio del suo cadavere. Caterina Sforza, moglie del Riario e figlia naturale di Galeazzo Maria, fu catturata e imprigionata nella rocchetta di Porta Nuova insieme ai figli. Gli Orsi, tuttavia, non riuscirono a convincere Tommaso Feo a cedere la rocca di Ravaldino. Caterina riuscì a persuadere gli Orsi a lasciarla entrare nella rocca per indurre il Feo alla resa, ma una volta dentro le mura si rifiutò di uscire, malgrado gli Orsi minacciassero di ucciderle i figli. Quando il Moro seppe della congiura, inviò un esercito a Bologna alla guida di Galeazzo Sanseverino che, unendosi alle truppe di Giovanni Bentivoglio, ammontava a 3 000 fanti e altrettanti cavalieri. Gli sforzeschi circondarono la città, minacciando di saccheggiarla e fare strage dei congiurati, che il giorno successivo si arresero e si diedero alla fuga. Ottaviano, figlio di Caterina, divenne nuovo signore di Forlì sotto la tutela della madre, che di fatto continuò a governare la città facendo giustiziare quasi tutti coloro che avevano preso parte alla congiura. Al suo ritorno a Milano, Galeazzo Sanseverino fu nominato capitano generale dell'esercito sforzesco.[31]
Nel frattempo la fidanzata Beatrice aveva raggiunto un'età consona alle nozze e il padre premeva già dal 1488 affinché si fissasse una data. Ludovico tuttavia, come informa l'onnipresente ambasciatore estense Giacomo Trotti, aveva preso presso di sé una fanciulla "molto bella [...] la quale gli va dietro dappertutto, e le vuole tutto il suo ben e gliene fa ogni demostratione"[32], la famosa Cecilia Gallerani, e senza dubbio fu per questo motivo che egli rimandò il matrimonio per ben tre volte, provocando un esaurimento nervoso al futuro suocero il quale credeva ormai che il Moro non intendesse più sposare sua figlia.[20] Ercole difatti già da anni esortava il Moro a sostituirsi al nipote nel possesso effettivo del ducato di Milano[33], e con questo preciso scopo voleva dargli al più presto in moglie Beatrice, in modo tale che potesse procreargli un legittimo erede. Nel 1490, tuttavia, dopo tredici mesi di totale inadempienza, Gian Galeazzo si era deciso a consumare le nozze con la moglie Isabella d'Aragona, la quale nel giro di pochi giorni si trovò gravida.[34] Proprio questo evento causò l'irritazione di Ercole, nonché dovette finalmente convincere il Moro che era necessario prendere moglie.[20] Così, per mezzo dei suoi ambasciatori speciali Francesco da Casate e Galeazzo Sanseverino, per scusarsi delle proprie esitazioni mandò in dono a Ferrara alla propria sposa "una bella collana cum perle grosse ligate in fiori d'oro et uno bello zoglielo da atachare a dicta collana, nel quale è uno bellissimo smiraldo de grande persona, et uno balasso et una perla in forma de un pero".[20]
Le nozze furono fissate per il gennaio successivo e il 29 dicembre 1490, nel corso d'un inverno che si rivelò rigidissimo tanto da costringere all'uso delle slitte, il corteo nuziale lasciò Ferrara per condurre a Milano la promessa sposa. Ella era accompagnata dalla madre, dal fratello Alfonso, dalla sorella Isabella, dallo zio Sigismondo e dal cugino Ercole. Sia Alfonso sia Ercole avrebbero altrettanto sposato due principesse di casa Sforza nella stessa occasione: il primo Anna Maria, figlia del defunto Galeazzo Maria e dunque nipote di Ludovico, il secondo Angela, figlia di Carlo Sforza (a sua volta figlio illegittimo di Galeazzo Maria) e di Bianca Simonetta (una delle figlie di Cicco Simonetta).[35]
Galeazzo Sanseverino venne incontro alla sposa con tre bucintori e diciotto navi fino a Brescello, dove il Po diveniva navigabile, in quello stesso punto s'erano unite anche la comitiva ferrarese e quella mantovana, che di lì in poi proseguiranno verso Pavia insieme ai milanesi. Il 15 gennaio la flotta approdò presso il porto fluviale di Pavia e il 17, con poco fasto, Ludovico sposò Beatrice nella Cappella Ducale del castello di Pavia. Ludovico aveva voluto che il matrimonio si celebrasse a Pavia e non a Milano proprio per non dare l'impressione di voler prevaricare Gian Galeazzo, legittimo duca di Milano, che aveva sposato Isabella d'Aragona in Duomo alcuni mesi prima. Pare che Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, fosse presente al matrimonio sotto travestimento e all'insaputa di Isabella.[20]
Il matrimonio fu dichiarato subito consumato e già il mattino dopo Ludovico partì alla volta di Milano per terminare i preparativi per la festa nuziale. In realtà il matrimonio rimase segretamente in bianco per oltre un mese,[36] in quanto gli sposi avevano avuto modo di conoscersi solamente il giorno prima e Ludovico, che all'epoca aveva trentotto anni, ebbe rispetto della giovinezza e dell'innocenza della propria sposa, allora quindicenne, e non volle forzarla a consumare il matrimonio di fretta.[37] Attese dunque con pazienza che Beatrice gli si concedesse spontaneamente, cosa che richiese parecchio impegno da parte sua[38] e che rischiò di causare un secondo esaurimento nervoso al suocero Ercole, il quale premeva invece per tramite dell'ambasciatore Trotti affinché il matrimonio fosse consumato subito.[34]
Il corteo di Beatrice lasciò Pavia tre giorni dopo le nozze, trascorrendo la notte del 21 gennaio nel castello di Binasco. Il giorno successivo Beatrice e i suoi familiari furono accolti dal duca e dalla duchessa di Milano poche miglia a sud della città ed accompagnati per una colazione presso il refettorio della basilica di Sant'Eustorgio. In tarda mattinata entrarono in città da Porta Ticinese, dove furono accolti da Ludovico, dai più insigni nobili, dal clero, dagli ambasciatori degli stati italiani nonché da medici e giureconsulti. Il 23 gennaio si celebrarono le nozze tra Alfonso d'Este e Anna Sforza, cementando ancora di più l'alleanza tra le due casate. Il 28 gennaio, nell'ambito dei festeggiamenti, si svolse una memorabile giostra che vide quale vincitore Galeazzo Sanseverino e a cui Francesco Gonzaga fu invitato a partecipare da Ludovico dopo aver rivelato la sua identità.[39]
Gian Galeazzo e la moglie Isabella, dopo il fastoso matrimonio avevano lasciato Milano per creare una loro corte a Pavia. Il giovane Gian Galeazzo non sembrava del resto avere desiderio di governare al posto dello zio Ludovico, ma sua moglie Isabella entrò ben presto in contrasto con la cugina Beatrice, in quanto quest'ultima risultò ancor più ambiziosa del proprio consorte e dopo avergli partorito il 25 gennaio 1493 il primo figlio maschio, Ercole Massimiliano, desiderò che fosse il proprio figlio ad essere nominato conte di Pavia (titolo riservato all'erede al ducato di Milano) piuttosto che il figlio di Isabella. Quest'ultima allora richiese l'intervento del re di Napoli Ferrante, che gli era nonno, affinché al marito, ormai maggiorenne, venisse affidato il controllo effettivo del ducato.[33] Ferrante tuttavia non aveva alcuna intenzione di scatenare una guerra, e forse nutriva ancora dell'affetto verso quella nipote (Beatrice) che aveva cresciuto presso di sé come una figlia, così la situazione rimase stabile sino a che il re fu in vita. Morto Ferrante, il figlio Alfonso, uomo terribile, ascese al trono di Napoli e non esitò, in difesa della figlia Isabella, ad occupare la città di Bari come primo atto di ostilità nei confronti del Moro.
Per rispondere a questa manovra, Ludovico si alleò allora con l'imperatore Massimiliano e con il re di Francia Carlo VIII, cui lasciò il via libera per discendere in Italia alla conquista del regno di Napoli, che Carlo riteneva suo possesso legittimo in quanto sottratto dagli Aragonesi agli Angioini. Massimiliano promise a Ludovico il Moro di riconoscere pubblicamente la sua successione al ducato e di difendere i suoi diritti, legittimando così l'usurpazione che molti adducevano allo Sforza, e per suggellare questa promessa sposò Bianca Maria Sforza, sorella del giovane Gian Galeazzo, la quale gli portò in dote la strabiliante somma di 500 000 ducati e molti doni predisposti accuratamente dallo stesso Moro per compiacere l'imperatore e ringraziarlo della preziosa presa di posizione in suo favore. L'11 settembre 1494 Carlo VIII arrivò ad Asti, ricevuto con grandi onori da Ludovico e da Beatrice.
Il 22 ottobre 1494 il duca Gian Galeazzo morì in circostanze rimaste misteriose: formalmente venne dichiarato morto per non aver seguito le cure prescrittegli dai suoi medici personali per un male che si trascinava da tempo e per la vita smodata che conduceva, ma a parere di molti contemporanei di rilievo, come il Machiavelli o il Guicciardini, il responsabile di tale morte fu lo zio Ludovico, per avvelenamento; Malaguzzi Valeri dissente fortemente da questa opinione, facendo notare come Ludovico si interessò realmente del benestare del nipote, come gli mandasse spesso regali quali cani, cavalli e falconi, e come si facesse tenere costantemente informato delle cure somministrategli; ricorda inoltre che Gian Galeazzo aveva cominciato a manifestare i primi disturbi di stomaco già all'età di 13 anni e che in effetti disobbediva continuamente alle prescrizioni dei medici, continuando a tracannare vino fuor di misura e ad affaticarsi in continue battute di caccia e in una vita sessuale disordinata.[40] Certamente la questione è di difficile soluzione, tanto più se si nota che Gian Galeazzo aveva da poco passato l'età per la reggenza, e pertanto non bisognerebbe esprimere un giudizio definitivo in merito.
Ad ogni modo il Moro gli succedette immediatamente per volontà dei nobili milanesi, a discapito dei legittimi eredi, toccando così l'apice del potere politico. Già il giorno successivo alla morte del duca, Ludovico era riuscito a ottenere il titolo di dux e a nominare suo legittimo erede il figlio primogenito Ercole Massimiliano. Data la sua nuova posizione, Ludovico cercò di rendersi popolare con atti di benevolenza, permettendo il libero taglio dei boschi nelle sue riserve di caccia e abolendo il dazio sulle biade per gli animali.
Carlo VIII, ora che il trono di Milano era nelle mani del Moro, conscio del suo desiderio di espandere la potenza del milanese, decise di dare un segnale forte allo Sforza, pur senza compromettere i rapporti diplomatici tra i due stati: il re di Francia giunse facilmente sino a Napoli e la conquistò in breve tempo. Ludovico, a questo punto, iniziò seriamente a preoccuparsi dell'eccessiva ingerenza dei francesi negli affari anche del suo stato e pertanto decise ancora una volta di rovesciare le alleanze, passando a schierarsi con Venezia e riuscendo a ricacciare Carlo in Francia grazie alla vittoria nella battaglia di Fornovo del 1495 (ricavando d'urgenza dei cannoni da un cumulo di 70 tonnellate di bronzo originariamente predisposte per una statua equestre progettata da Leonardo da Vinci).
È da notare tuttavia che né Ludovico né tantomeno Beatrice avevano mai avuto intenzione di favorire realmente i francesi nella conquista del reame di Napoli. Loro unico scopo era spaventare il re Alfonso II e semmai tenerlo impegnato su di un altro fronte così da impedirgli di volgersi alla conquista di Milano. Difatti una volta che Alfonso II abdicò in favore del figlio Ferrandino, da tutti quanti unanimemente amato per le sue ottime qualità di perfetto principe, Ludovico finse di allestire per il re di Francia due navi a Genova e le mandò invece in soccorso di Ferrandino, impegnato in una complicatissima situazione di guerra.[41]
Ludovico d'altronde aveva contato sul fatto che i signori dei vari stati d'Italia, e soprattutto Firenze, non avrebbero lasciato passare Carlo, cosa che invece non avvenne, in quanto Piero il Fatuo, che fino ad allora era stato il più forte alleato del re di Napoli, spaventato finì per gettarsi ai piedi del re di Francia, concedendogli non solo il libero passaggio per la Toscana ma cedendogli perfino Pisa e Livorno più la somma di 120.000 fiorini d'oro.[33] La città di Pisa si era inoltre ribellata e, poiché i fiorentini avevano rifiutato di aderire alla lega antifrancese che avrebbe affrontato Carlo VIII a Fornovo, sia la Repubblica di Venezia sia Ludovico il Moro inviarono truppe a sostegno di Pisa contro Firenze, entrambi con l'obbiettivo di impadronirsi del controllo della città.
Intanto Beatrice era in attesa di un secondo figlio e fu in questo periodo che il Moro conobbe Lucrezia Crivelli, dama di compagnia della moglie, che divenne sua amante. Beatrice fino a quel momento non s'era mostrata troppo gelosa dei frequenti tradimenti del marito, ritenendoli distrazioni passeggere e di poco conto[42], ma quando si accorse che Ludovico si era stavolta seriamente innamorato della Crivelli, tentò di opporsi con tutte le proprie forze alla relazione. Non vi fu modo tuttavia di distoglierne il marito e per tutto il 1496 Ludovico continuò a frequentare più o meno segretamente la Crivelli, in un regime di sostanziale bigamia, tanto che finì per ingravidare sia la moglie sia l'amante nel giro d'un paio di mesi. Beatrice, che pure era sinceramente innamorata del marito, reagì rifiutandogli il proprio letto,[43] e i rapporti fra i due sposi giunsero ad un punto di rottura. Infine, profondamente umiliata, delusa, amareggiata, soprattutto addolorata per la prematura quanto tragica morte della giovanissima Bianca Giovanna, sua amica carissima, Beatrice morì di parto nella notte fra il 2 e il 3 gennaio 1497.[23]
Ludovico, che pure tanto sfacciatamente l'aveva tradita, impazzì dal dolore, né mai più si riprese dalla morte della moglie, la quale era stata sino ad allora la sua forza e il suo sostegno nel governo dello stato.[44] Per due settimane rimase rinchiuso al buio nei propri appartamenti, dopodiché si rasò il capo e si lasciò crescere la barba, indossando da quel momento in poi solamente abiti neri con un mantello stracciato da mendicante.[20] Sua unica preoccupazione divenne l'abbellimento del mausoleo di famiglia e lo stato, trascurato, andò in rovina.[33][45]
Con queste poche parole in quella medesima notte egli annunciava la dipartita della consorte al marchese di Mantova Francesco Gonzaga, marito della cognata Isabella:[46]
«La Ill.ma nostra consorte, essendoli questa nocte alle due hore venuto le dolie, alle cinque hore parturite uno fiolo maschio morto, et alle sei et meza rese el spirito a Dio, del quale acerbo et immaturo caso se trovamo in tanta amaritudine et cordolio quanta sij possibile sentire, et tanta che più grato ce saria stato morire noi prima et non vederne manchare quella che era la più cara cossa havessimo a questo mundo» |
(Mediolani, 3 Januarii 1497 hora undecima. Ludovicus M. Sfortia Anglus Dux Mediolani) |
Carlo VIII morì nel 1498. Il suo successore Luigi XII di Francia, essendo nipote di Valentina Visconti, era quindi pretendente al ducato di Milano e si diede infatti a preparare una spedizione contro il Moro. Questi aveva tentato già una volta di conquistare Milano nell'estate del 1495, all'epoca della spedizione di Carlo VIII, ma non aveva avuto successo, in quanto s'era scontrato con la fiera opposizione di Beatrice[33] che aveva preso in mano la situazione dopo che il marito, forse a causa del forte spavento, era stato colpito, pare, da un ictus.[20] Stavolta però, privo ormai del valido aiuto della consorte, Ludovico non si rivelò in grado di fronteggiare il nemico. Egli del resto negli anni era riuscito a inimicarsi i due migliori condottieri della penisola: Roberto Sanseverino e Gian Giacomo Trivulzio. Morto Roberto, restava il Trivulzio a meditare propositi di vendetta, e proprio a quest'ultimo Luigi XII affidò la conduzione dell'esercito per la conquista di Milano.
Visto che i pisani preferivano mettersi sotto la tutela di Venezia (la città era già stata soggetta al Signore di Milano sotto i Visconti), Ludovico ritirò le truppe da Pisa, avendo perso ogni speranza di potersi insignorire della città toscana. Rovesciò quindi l'alleanza con Venezia, aiutando militarmente Firenze per la riconquista di Pisa, sperando che la Repubblica fiorentina lo aiutasse almeno con la diplomazia contro l'arrivo del re Luigi XII.
Ma la mossa si rivelò sbagliata e anzi lo privò di un prezioso alleato, Venezia, che lo aveva aiutato concretamente sin dalla battaglia di Fornovo e non rendendogli certo l'aiuto di Firenze, di cui il Ducato di Milano era sempre stato fiero avversario fin dal XV secolo. Tutto ciò fu evidente alla seconda discesa in Italia del re di Francia: Luigi XII, alleatosi con Venezia, che a questo punto era desiderosa di vendicarsi del voltafaccia di Ludovico a Pisa, passò in Italia e, grazie anche alla rivolta del popolo milanese oppresso dalle tasse, conquistò il Ducato in breve tempo, occupandolo con le truppe francesi (settembre 1499). Di questa tragica discesa in Italia dei francesi, che inaugurò un periodo di guerra ed invasioni straniere sulla penisola, Machiavelli incolpò direttamente Ludovico il Moro e la politica da lui portata avanti, un giudizio storico con cui furono concordi molti storici nei secoli, ma che oggi molti tendono a rivedere.[47]
Ludovico si rifugiò a Innsbruck presso l'imperatore Massimiliano I d'Asburgo e nel 1500 tentò di riappropriarsi di Milano; le truppe svizzere sue alleate si rifiutarono però di partecipare alla battaglia e Ludovico fu sconfitto e catturato dai francesi il 10 aprile durante l'assedio di Novara, tradito da un soldato mercenario svizzero, mentre nascosto tra le sue truppe stava cercando di ripiegare verso Bellinzona, nelle cui fortezze si erano asserragliati i suoi fedelissimi dopo averne scacciato i francesi.[48]
Con l'arrivo dei francesi, Milano perse l'indipendenza e rimase sotto dominio straniero per 360 anni. Tra il bottino di guerra preso dai francesi vi fu anche la grande Biblioteca visconteo-sforzesca[49], che si trovava (insieme ad una parte dell'archivio ducale) nel castello di Pavia ed era costituita da oltre 900 manoscritti, tra cui alcuni appartenuti a Francesco Petrarca. Dei codici della biblioteca dei duchi di Milano, 400 sono ancor oggi conservati presso la Bibliothèque nationale de France, mentre altri finirono in biblioteche italiane, europee o statunitensi[50][51].
Ludovico venne portato prigioniero in Francia, passando per Asti, Susa e Lione, dove giunse il 2 maggio. Luigi XII di Francia, malgrado le insistenze dell'imperatore Massimiliano per liberare Ludovico, si rifiutò di accondiscendere a queste richieste e anzi umiliò l'ex duca, rifiutandosi di riceverlo ufficialmente, pur seguitando a trattarlo come un prigioniero speciale, permettendogli di andare a pesca e di ricevere degli amici. Nell'inverno successivo, quando il Moro si ammalò, il re di Francia inviò il suo medico personale per curarlo, assieme ad un nano di corte per allietarlo.[52]
Dapprima venne detenuto al castello di Pierre-Scize, venendo poi spostato a quello di Lys-Saint-Georges presso Bourges, ed infine trasferito nel castello di Loches nel 1504, dove ebbe ancora ulteriore libertà sino al suo tentativo di fuga nel 1508, quando il re di Francia, sentendosi offeso da questa iniziativa del suo sorvegliato speciale, dispose che fosse rinchiuso nel torrione del castello e privato di tutti i suoi privilegi. Qui Ludovico il Moro morì il 27 maggio 1508, assistito dai conforti religiosi.[53]
La sua salma non venne mai rimpatriata e venne sepolta a Tarascona, nella locale chiesa dei padri domenicani. Nel 2019, durante alcuni scavi nella collegiata di Sant'Orso a Loches, sono venute alla luce alcune tombe, una delle quali potrebbe essere riferita al duca di Milano.[54][55]
Dopo la morte di Ludovico il Moro, l'imperatore Massimiliano con i lanzichenecchi riuscì a restituire il ducato di Milano al primo dei figli di Ludovico, Ercole Massimiliano Sforza, che regnò per breve tempo come duca, lasciando poi il trono a suo fratello Francesco II Sforza, che regnò anch'egli per un breve periodo. Alla morte di Francesco II nel 1535, e con lo scoppio delle guerre italiane, Milano passò con Carlo V definitivamente sotto il dominio dell'Impero spagnolo, alle cui sorti rimase legato nei secoli successivi.
Duca eccellentissimo in tempi di pace, pessimo in tempi di guerra, Ludovico non fu mai portato né per le armi né per gli esercizi del corpo, fu anzi uomo dal carattere mite, conciliante, detestò ogni forma di violenza e di crudeltà, e difatti quanto più poté tenersi lontano dai campi di battaglia, si tenne, e quanto più poté astenersi dall'infliggere dure punizioni ai colpevoli, si astenne.[17][56] Egli non merita dunque la fama di "tiranno" che talvolta gli si attribuisce, la quale semmai appartenne a suo fratello Galeazzo Maria Sforza, duca prima di lui, il quale era solito tormentare i propri sudditi e perfino i propri amici con indicibili torture e crudeltà (delle quali Bernardino Corio ci ha tramandato una sommaria lista), e sottrarre per proprio diletto le donne d'altri, a tal punto che proprio ciò fu causa della sua uccisione per mano di nobili congiurati nel 1476.[33]
Forse proprio prendendo a monito l'esempio fraterno, Ludovico si astenne sempre da ogni eccesso. Si può dire che fosse perfino incapace di portare odio, se negli ultimi anni della propria vita, rinchiuso ormai prigioniero nel carcere di Loches dal re Luigi XII che lo aveva privato dello stato, del titolo, delle ricchezze e finanche dei propri stessi figli, Ludovico non trovò di meglio da fare che scrivere un memoriale "de le cosse de Italia" per lo stesso Luigi XII, nel quale spiegava al sovrano quale fosse la maniera migliore per governare la Lombardia.[17]
Fisicamente fu parecchio alto per i tempi, pressappoco fra il metro e ottanta e il metro e novanta d'altezza, ma non fu altrettanto ben disposto fisicamente,[57] difatti apprezzava assai la buona tavola e soprattutto andava ghiotto per certi cefali sottolio che gli spediva talvolta il suocero Ercole.[58] Con l'andare degli anni, senza i dovuti allenamenti fisici, ingrassò sempre di più, dimagrendo poi solo a seguito della morte della moglie (per via dei continui digiuni) e della cattura, per poi tornare ad essere "più grasso che mai"[59], così come lo descrive l'ambasciatore Domenico Trevisan, dopo essersi ormai assuefatto alla prigionia. Non era perciò solito indossare i farsetti attillati tipici dei giovanotti e dei condottieri, quanto piuttosto vesti che gli arrivavano poco sopra il ginocchio.[60] Aveva però spalle larghe e le metteva in risalto con catene d'oro massiccio, come si può vedere nella cosiddetta Pala Sforzesca. Fin dalla nascita, come conferma la madre, ebbe occhi, capelli e carnagione scura, che gli derivarono perciò il suo soprannome, e poté vantare una folta capigliatura che tenne sempre tagliata secondo la moda dell'epoca, sebbene a seguito della morte della moglie iniziò, come pare, a perdere i capelli, oltre che a soffrire di diverse malattie, quali la gotta e l'asma.[20]
Negli anni migliori fu comunque dotato di grande fascino e carisma, difatti egli era solito vantarsi di non aver mai dovuto costringere nessuna donna a concedersi a sé, e anzi di averle amate tutte. La fama di seduttore giunse a tal punto che si parlò perfino di una sua relazione (probabilmente inventata) con la nipote Isabella d'Aragona, la quale relazione sarebbe stata la ragione per cui Gian Galeazzo aveva a sdegno la moglie e si rifiutava di consumare il matrimonio. L'ambasciatore estense Giacomo Trotti attribuì poi al "troppo coito" con Cecilia Gallerani la causa di un certo malessere che colpì il Moro nel 1489.[34] Inoltre Ludovico stesso, dopo la morte di Beatrice, arrivò a vantarsi d'aver intrattenuto una relazione anche con Isabella d'Este, sorella di lei, nel periodo in cui la moglie era ancora viva, insinuando così che fosse per gelosia che il marchese di Mantova Francesco Gonzaga, marito di Isabella, continuasse a fare il doppiogioco fra lui e la Signoria di Venezia. Isabella senza ombra di dubbio ebbe sempre un debole per Ludovico, e difatti invidiò sin dall'inizio la sorella per il fortunato matrimonio che le era toccato, per le ricchezze e per i figli, ma non è provato che fosse effettivamente stata sua amante, e in ogni caso il suocero Ercole d'Este si affrettò subito a smentire la voce.[61]
Sicuramente Ludovico fu prodigo con gli amici, assai liberale, accondiscendente, riflessivo e umano, tuttavia si rivelò uomo assai poco energico, se non spronato, e con l'andare del tempo (forse a seguito del suddetto ictus) divenne sempre più contraddittorio e instabile.[62] Nella moglie, donna dal carattere forte e dunque in grado di supplire alle mancanze del marito, egli trovò la sua più fedele e valida collaboratrice, tanto che la morte di lei segnò la sua rovina.[45] Di Beatrice si fidò ciecamente, le concesse grande libertà e le affidò incarichi d'importanza, rendendola sempre partecipe dei consigli e delle trattative di guerra. Come marito fu dunque, almeno all'inizio, quasi impeccabile, e se non fosse stato per i continui tradimenti niente gli si sarebbe potuto rimproverare a tal proposito. Alcuni storici, errando, sostennero ch'egli picchiasse la moglie,[63] ma la confusione nasce da una lettera del 1492, nella quale è scritto che il duca di Milano aveva "battuto" sua moglie: duca di Milano era allora chiamato Gian Galeazzo, il quale conformemente al proprio carattere era in effetti solito maltrattare la moglie Isabella,[20] né dunque Ludovico si permise mai di compiere un tale gesto nei confronti di quella donna che "amava più che se stesso".[64]
Anche in qualità di padre egli fu attento, amorevole e presente, grande fu l'amore che nutrì soprattutto verso la propria figlia femmina, Bianca Giovanna, e insopportabile il dolore che mostrò per la sua prematura inopinata morte.[62] Fu particolarmente legato anche a Galeazzo Sanseverino, che pure era figlio di Roberto, e per questo motivo gli diede in sposa la propria figlia prediletta, lo ricoprì di onori e gli permise di tenere in castello quasi una corte propria.[62] Galeazzo da parte sua lo servì fedelmente e, sebbene non fosse altrettanto abile in guerra quanto il fratello Fracassa, fu lui a ricoprire il ruolo di capitano generale dell'esercito sforzesco. Proprio questa prevaricazione fruttò a Ludovico l'odio poi rivelatosi fatale di Gian Giacomo Trivulzio, che s'era visto privato di colpo del titolo.[20]
La grande passione del Moro, più che le donne, più che il cibo e più che il governo, fu invero l'agricoltura: a Ludovico piaceva ricordare che suo nonno, Muzio Attendolo, prima di farsi condottiero era nato contadino, ed egli stesso fu esperto coltivatore di viti e di gelsi, i famosi moròn, con i quali si nutrivano i bachi da seta che resero l'industria milanese famosa. Diede vita ad una propria azienda agricola nei pressi di Vigevano, la cosiddetta Sforzesca, con adiacente la Pecorara ove si allevavano varie specie di bovini, ovini e altri animali, che Ludovico amò tantissimo e dove si recò spesso in visita con la moglie Beatrice, come lui amante della natura.[65] Non fu un caso se impiegò Leonardo da Vinci quasi più come ingegnere che come artista, sfruttando le sue conoscenze per costruire una serie di acquedotti utili ad irrigare quelle terre per natura aride. Alla fine decise, con atto ufficiale del 28 gennaio 1494, di donare la Sforzesca, insieme a molte altre terre, all'amata Beatrice, e ciò appare significativo ancor più se si pensa che da quella sola azienda Ludovico percepiva annualmente ricchissime rendite.[62]
Forse proprio a causa delle proprie insicurezze, egli fu ossessionato dall'astrologia, tanto che i cortigiani ferraresi notavano che a Milano nulla si faceva senza che Ambrogio da Rosate, astrologo e medico personale del Moro, avesse prima consultato gli astri.[66] A differenza di quanto sostengono taluni storici, Ludovico fu uomo colto, conosceva il latino e il francese e ogni qual volta poteva si fermava ad ascoltare la lettura e il commento quotidiani della Divina Commedia che l'umanista Antonio Grifo teneva per volontà della duchessa Beatrice, la quale ne era molto appassionata.[67] Dopo la morte di lei e la propria cattura, Ludovico chiese come ultima volontà di poter tenere con sé un libro dell'opera di Dante che lesse continuamente durante la prigionia, le cui terzine si dilettava di scrivere, tradotte in francese, sulle pareti della propria cella, insieme a qualche altro suo pensiero nostalgico intriso di saggezza.[17]
Da Beatrice d'Este, figlia di Ercole I d'Este, ebbe i seguenti figli:
Il Moro ebbe inoltre una serie di figli naturali, tutti legittimati, che nel corso degli anni allargarono notevolmente la famiglia ducale e consentirono allo stesso Sforza di cementare alcune alleanze:
Dall'amante Bernardina de Corradis, conosciuta quando era duca di Bari,[69] ebbe:
Dall'amante Cecilia Gallerani ebbe un figlio:
Dall'amante Lucrezia Crivelli ebbe due figli:
Dall'amante Romana ebbe:
Da amanti oscure ebbe:
Durante tutto il periodo della reggenza del Moro (e solo in minima parte durante il suo governo diretto del ducato), Milano conobbe un vero e proprio periodo d'oro, con la presenza a corte di artisti come Leonardo e Bramante e Giovanni Ambrogio de Predis, oltre che di letterati come Bernardo Bellincioni, Antonio Cammelli (detto il Pistoia), Gaspare Ambrogio Visconti, Francesco Tanzio Cornigero, Serafino Aquilano, Vincenzo Calmeta, Lancino Curti, Piattino Piatti. Nella prestigiosa Università di Pavia, che fu largamente patrocinata dal Moro, insegnavano professori come Demetrio Calcondila, Giorgio Merula, Luca Pacioli e Franchino Gaffurio. Promosse l'operato di storici come Bernardino Corio, che dal 1485 venne stipendiato fisso dalla corte per redigere la sua Storia di Milano che, oltre a ricostruire la narrazione degli eventi della città e del ducato dalle origini a quei giorni, si impegnò a celebrare la figura di Francesco Sforza, padre di Ludovico, legittimandone la successione al ducato di Milano e nel contempo legittimando la propria figura dopo la morte del nipote e la sua successione. Tale opera fu svolta anche da Giovanni Simonetta, fratello dello sfortunato Cicco, che nel 1490, con il patrocinio del Moro, pubblicò le Rerum Gestarum Francisci Sfortiae Mediolanensium Ducis, dedicate appunto alla memoria del primo duca milanese della dinastia degli Sforza.
Nel Ducato il Moro lasciò opere di sua commissione che ancora oggi appaiono di straordinaria bellezza: a Milano proseguì la fabbrica del Duomo e quella del castello (dove fece realizzare la famosa Ponticella, che ancora oggi da lui prende il nome), incrementandone la già ragguardevole e preziosa biblioteca, oltre a costruirvi il lazzaretto; a Pavia fece cospicue donazioni alla Certosa ed a Vigevano potenziò la residenza ducale, ingentilendo il borgo con la creazione della grandiosa piazza rettangolare ancora oggi simbolo distintivo della città, oltre a far realizzare la cascina Sforzesca, una fattoria completa alle sue dipendenze, all'avanguardia nelle ultime tecniche di coltivazione.
Un'amante di Ludovico, Cecilia Gallerani, venne ritratta da Leonardo nel famosissimo dipinto della Dama con l'ermellino, ora a Cracovia, e un'altra, forse Lucrezia Crivelli, nella Belle Ferronnière, ora al Louvre. Su iniziativa di Ludovico, la chiesa di Santa Maria delle Grazie di Milano venne interamente ricostruita ed abbellita dal Bramante, che ne fece una delle più belle espressioni del rinascimento italiano e, nel suo refettorio, Leonardo dipinse il celeberrimo Cenacolo. Leonardo, che con Milano ebbe un rapporto privilegiato durato oltre vent'anni, tanta fu la sua permanenza nella capitale lombarda, sempre su sprone di Ludovico decorò il soffitto della Sala delle Asse del Castello Sforzesco e realizzò per la Confraternita dell'Immacolata Concezione la Vergine delle Rocce, nella versione oggi conservata al Louvre di Parigi. Per il matrimonio tra Gian Galeazzo Maria Sforza e Isabella d'Aragona, Leonardo progettò e mise in scena su commissione del Moro la cosiddetta Festa del Paradiso, un grandioso spettacolo celebrativo dell'intera dinastia degli Sforza di Milano.
Nello stesso periodo, su iniziativa di Ludovico il Moro, vennero realizzate anche molte opere d'ingegneria civile e militare, come la costruzione di canali e fortificazioni in tutta la Lombardia, oltre alla coltivazione del riso e del gelso, quest'ultimo in particolare legato all'allevamento del baco per la produzione di tessuti di seta, elemento che divenne fondamentale nell'economia lombarda. Nel 1498 istituì il Monte di Pietà.
Ludovico è protagonista di alcuni romanzi, fumetti e tragedie:
Compare inoltre come personaggio nei romanzi:
Genitori | Nonni | Bisnonni | Trisnonni | ||||||||||
Giovanni Sforza | Giacomo Attendolo | ||||||||||||
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Muzio Attendolo | |||||||||||||
Elisa Petraccini | Ugolino Petraccini | ||||||||||||
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Francesco I Sforza | |||||||||||||
… | … | ||||||||||||
… | |||||||||||||
Lucia Terzani | |||||||||||||
… | … | ||||||||||||
… | |||||||||||||
Ludovico Sforza | |||||||||||||
Gian Galeazzo Visconti | Galeazzo II Visconti | ||||||||||||
Bianca di Savoia | |||||||||||||
Filippo Maria Visconti | |||||||||||||
Caterina Visconti | Bernabò Visconti | ||||||||||||
Regina della Scala | |||||||||||||
Bianca Maria Visconti | |||||||||||||
Ambrogio del Maino | Andreotto del Maino | ||||||||||||
… | |||||||||||||
Agnese del Maino | |||||||||||||
Ne de Negri | … | ||||||||||||
… | |||||||||||||
Cavaliere dell'Ordine dell'Ermellino | |
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