Indro Montanelli, nome completo Indro Alessandro Raffaello Schizògene Montanelli[1][2] (Fucecchio, 22 aprile 1909 – Milano, 22 luglio 2001), è stato un giornalista e scrittore italiano.
Tra i più popolari giornalisti italiani del Novecento, si distinse per la concisione e limpidezza della sua scrittura, iniziando la sua carriera durante il ventennio fascista. Successivamente fu per circa quattro decenni l'uomo-simbolo del principale quotidiano d'Italia, il Corriere della Sera. In seguito, lasciato il Corriere per contrasti sulla nuova linea politica della testata, diresse per vent'anni un altro quotidiano fondato da lui stesso, il Giornale, distinguendosi come opinionista di stampo conservatore. Fu gravemente ferito nel 1977 in un attentato organizzato delle Brigate Rosse. Con l'entrata in politica di Silvio Berlusconi, da lui apertamente disapprovata, lasciò Il Giornale e, nel marzo 1994, fondò la Voce, un quotidiano che chiuse tuttavia l'anno seguente. Fu anche l'autore di una collana di libri di storia a carattere divulgativo, Storia d'Italia, i quali narrano la storia d'Italia dall'antichità alla fine del XX secolo. In ciascuna di queste attività Montanelli seppe conquistare un largo seguito di lettori.
Figlio di Sestilio Montanelli (1880-1972), professore di scuola media, e Maddalena Dòddoli (1886-1982), figlia di ricchi commercianti di cotone[3], Indro nacque a Fucecchio[4], nel palazzo di proprietà della famiglia della madre. A tale circostanza sono riferite alcune «leggende», la più famosa delle quali – raccontata dallo stesso Indro – narra che, dopo un litigio (gli abitanti di Fucecchio erano divisi in «insuesi» e in «ingiuesi», cioè di Fucecchio di sopra e di Fucecchio di sotto; la madre di Indro era insuese e il padre ingiuese), la famiglia materna ottenne di far nascere il bambino nella propria zona collinare, mentre il padre scelse un nome adespota, estraneo alla famiglia materna[5].
Il nome Indro, scelto dal padre, infatti è la mascolinizzazione del nome della divinità induista Indra[6], poi trasformato nel soprannome «Cilindro» dagli amici e anche da alcuni avversari politici[7]. Il nome, dopo la sua nascita, ebbe una certa diffusione a Fucecchio; ad esempio vi furono Indro Cenci e alcuni omonimi Indro Montanelli[8][9]. Il padre gli assegnò altri tre nomi, Alessandro, Raffaello e Schizogene, cioè «generatore di divisioni»[10].
Passò l'infanzia nel paese natale, spesso ospite nella villa di Emilio Bassi, sindaco di Fucecchio per quasi un ventennio nei primi anni del Novecento. A Emilio Bassi, che considerava come un «nonno adottivo», restò legato tanto da volere che a lui fosse cointitolata la Fondazione costituita nel 1987[11].
Sin da ragazzo Montanelli incominciò a soffrire di attacchi di panico, un male che lo segnò per tutta la vita[12]:
«La prima crisi fu a undici anni. Mi svegliai una notte urlando "Muoio, muoio!". Una mano mi attanagliava la gola, mi sentivo soffocare. Accorsero i miei genitori, un po' mi quietai, ma smisi di dormire e di mangiare per mesi, avevo paura di tutto, un vero terrore, e mi sentivo addosso la tristezza del mondo intero. Dovetti abbandonare la scuola per quell'anno. I sintomi si sono poi ripresentati identici più o meno ogni sette anni, ciclicamente[13].» |
Probabilmente Montanelli soffriva di disturbo bipolare[14].
Il padre, preside di liceo (il più giovane d'Italia)[12], fu trasferito prima a Rieti (nel 1922), poi a Lucca e ancora a Nuoro presso il Liceo ginnasio statale Giorgio Asproni, dove il giovane Indro lo seguì. A causa degli spostamenti del padre, frequentò il liceo classico "Marco Terenzio Varrone" a Rieti, dove nel 1925 conseguì la maturità. Prima di diplomarsi, insieme al figlio del locale prefetto, aveva organizzato uno sciopero degli studenti e una manifestazione contro gli stessi preside e prefetto[12].
Nel 1930 si laureò in Giurisprudenza all'Università degli Studi di Firenze, con un anno di anticipo sulla durata normale dei corsi, discutendo una tesi sulla riforma elettorale del fascismo (legge Acerbo), in cui sostenne che era finalizzata ad abolire le elezioni[15]. Ottenne la valutazione di centodieci e lode[16]. Suoi docenti furono Piero Calamandrei, Federico Cammeo, Enrico Finzi, Manfredi Siotto Pintor e il giovane Giorgio La Pira[17]. Successivamente frequentò corsi di specializzazione all'Università di Grenoble, alla Sorbona e a Cambridge. Nel 1932 ottenne una seconda laurea, in Scienze politiche e sociali, sempre a Firenze, all'Istituto Cesare Alfieri[18], con una tesi in cui valutava positivamente la politica di isolamento inglese[15].
Nel 1929 fu allievo ufficiale a Palermo ove, vittima delle crisi depressive, fu raggiunto dalla madre che provò a rassicurarlo[12]. La madre, molto tempo dopo, raccontò l'episodio in televisione[19].
«Io mi considero un condannato al giornalismo, perché non avrei saputo fare niente altro.» |
(Indro Montanelli, Questo secolo, 1982[20].) |
Dopo i primi articoli giovanili per La Frusta di Rieti[21], Montanelli firmò il suo primo articolo, su Byron e il cattolicesimo, sulla rivista Il Frontespizio di Piero Bargellini (luglio-agosto 1930)[22]. Fu attento lettore di altre riviste, specie L'Italiano di Leo Longanesi (conosciuto nel 1937 a Roma e destinato a diventare suo grande amico) e Il Selvaggio di Mino Maccari: periodici, entrambi, che, pur essendo fascisti, furono fra i primi a rompere con il coro conformista del regime[23].
Dopo che nel 1932 un amico, Diano Brocchi, gli fece conoscere di persona Berto Ricci, con cui aveva fino ad allora scambiato alcune lettere[24], incominciò a collaborare al periodico fiorentino L'Universale[25], che aveva una diffusione di nemmeno 2.000 copie[26]. Nello stesso anno fu ricevuto, assieme a tutto lo staff de L'Universale[27] da Benito Mussolini, il quale, secondo il racconto che lo stesso Montanelli avrebbe reso a Enzo Biagi per la trasmissione Questo secolo, del 1982, intendeva elogiarlo per un articolo anti-razzista che aveva scritto[20].
«Mi disse: "Avete fatto benissimo a scrivere quell'articolo, il razzismo è roba da biondi"[28].» |
(Indro Montanelli, Questo secolo, 1982[20].) |
Tuttavia quattro anni dopo, nell'ambito della propaganda per la guerra d'Etiopia Montanelli scriverà parole dal tenore opposto:
«Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà.» |
(Indro Montanelli, Civiltà Fascista, 1936[29].) |
Montanelli fu altresì invitato a collaborare a Il Popolo d'Italia; L'Universale venne chiuso nel 1935[23]. Invece si recò a Parigi per respirare aria nuova (1934)[30]. Si presentò al quotidiano Paris-Soir offrendosi come «informatore volontario»[12]. Esordì come giornalista di cronaca nera; contemporaneamente collaborò al quotidiano L'Italie Nouvelle diretto da Italo Sulliotti (un giornale bilingue, organo del Fascio francese). Fu poi, mandato sempre da Paris-Soir[12], corrispondente in Norvegia e da lì in Canada. Gli articoli che Montanelli spedì dal Canada furono letti da Webb Miller, all'epoca inviato parigino della United Press, che suggerì all'agenzia di assumerlo. La prima assunzione di Montanelli come giornalista fu a New York[12]. Incominciò quindi a lavorare come apprendista alla sede centrale della UP, ma non interruppe i rapporti professionali con Paris-Soir[15]. Fu infatti la rivista parigina a offrirgli la possibilità di realizzare il suo primo scoop[16][23]: un'intervista con il magnate Henry Ford.
Nel 1935 Montanelli scrisse il suo primo libro, Commiato dal tempo di pace, che fu pubblicato nelle edizioni del «Selvaggio». In quell'anno l'Italia invase l'Etiopia. Montanelli si propose all'UP come inviato in zona di guerra, ma l'agenzia aveva già scelto Webb Miller per quel ruolo[31]. Allora prese una decisione drastica: si licenziò dalla United Press e si arruolò volontario[20]. Il 15 giugno 1935 salpò per l'Etiopia[32]. Partecipò alle operazioni di guerra come sottotenente inquadrato in un battaglione coloniale di àscari, il XX Battaglione Eritreo, in cui fu comandante di una compagnia[12]:
«Questa guerra è per noi come una bella lunga vacanza dataci dal Gran Babbo in premio di tredici anni di scuola. E, detto fra noi, era ora.» |
(Indro Montanelli, ringraziando Benito Mussolini («Gran Babbo»), nel raccontare la sua esperienza di comandante di una compagnia di àscari durante la guerra d'Etiopia[33].) |
La guerra di Montanelli durò solo fino a dicembre: fu ferito e dovette abbandonare il fronte. Durante la sua permanenza al fronte aveva incominciato a scrivere un libro-reportage, che uscì all'inizio del 1936, mentre era ancora in Etiopia[34]. L'opera, XX Battaglione Eritreo, in maggio fu recensita favorevolmente da Ugo Ojetti sul Corriere della Sera[35] e da Goffredo Bellonci: la sua tiratura raggiunse le 30 000 copie[12].
Il padre di Indro, Sestilio, si trovava in Africa Orientale per dirigere una commissione di esami per militari e civili dell'esercito residenti nelle colonie. Intercedette presso il direttore del quotidiano di Asmara La Nuova Eritrea, Leonardo Gana, facendolo assumere. Montanelli ottenne così la tessera di giornalista. Nel gennaio 1936 fu trasferito dal XX Battaglione Eritreo al Drappello Servizi Presidiari e incominciò a prestare servizio presso l'Ufficio Stampa e Propaganda[36].
In Etiopia Montanelli, che all'epoca aveva 26 anni, ebbe una relazione con una bambina eritrea di 12 anni[19]. Altre fonti parlano invece di una ragazzina di 14 anni[37], ma in una intervista televisiva Montanelli dichiara «di aver regolarmente comprato dal padre» una bambina di 12 anni, per sposarla[38]. Fatìma[12] (che in un articolo de La stanza di Montanelli del 2000, dove ricostruisce minuziosamente la vicenda del suo primo matrimonio, Montanelli chiama invece Destà[39]) fu comprata dal suo «sciumbasci» Gabér Hishial[37] versando al padre la convenuta cifra di 350 lire (la richiesta iniziale era di 500), più l'acquisto di un «tucul» (una capanna di fango e di paglia) di 180 lire[39]. Compresi nel prezzo ebbe anche un cavallo e un fucile[20].
«Vista l'usanza degli ascari di combattere con la moglie al seguito, decisi anch'io di sposarmi. I miei uomini mi procurarono una giovane e bellissima eritrea [...]. In questo modo, ogni due settimane mi ritrovavo, al pari dei miei uomini, con i panni puliti[40].» |
La ragazza rimase al suo fianco per l'intera permanenza in Africa[41]. L'usanza del madamato, dapprima tollerata e talvolta attuata su spinta dei capi-reggimento locali[39], fu proibita nell'aprile 1937 per limitare le infezioni veneree e per evitare contatti tra italiani e africani: il provvedimento fu poi seguito l'anno dopo dall'emanazione delle leggi razziali. Prima del ritorno in Italia la cedette al generale Alessandro Pirzio Biroli, che la introdusse nel proprio piccolo harem[20]. In seguito la ragazza sposò un militare eritreo che era stato agli ordini di Montanelli nella guerra coloniale:
«Nel '52 chiesi e ottenni di poter tornare nell'Etiopia del Negus e la prima tappa, scendendo da Asmara verso il Sud, la feci a Sageneiti, patria di Destà e del mio vecchio "bulukbasci", che mi accolsero come un padre. Avevano tre figli, di cui il primo si chiamava Indro. Donde la favola, di cui non sono mai più riuscito a liberarmi, che fosse figlio mio. Invece era nato ben 20 mesi dopo il mio rimpatrio[39].» |
Nel 2020 un sessantasettenne italo-eritreo, originario di Sageneiti e residente a Parma, affermò in un'intervista di essere figlio di tale Lattemicael Destà, che secondo l'articolo[42] sarebbe da ritenersi con ogni probabilità l'unica donna chiamata Destà residente a Sageneiti in quel periodo. Nata nel 1923, la donna non avrebbe avuto mai alcun rapporto con lo scrittore. La vicenda sarebbe stata quindi inventata da Montanelli, o comunque manipolata in modo molto significativo.
Un giorno[quando?] Montanelli incontrò Filippo Tommaso Marinetti che, nonostante la non giovane età (era nato nel 1876), aveva voluto ugualmente vivere l'esperienza della guerra[43]. Redattore de La Nuova Eritrea, Montanelli scrisse un pezzo per L'Italia letteraria in cui mostrò la sua disillusione per la nuova Italia che il fascismo voleva costruire:
«Dopo quattordici anni di tensione ideale [e dopo] un crescendo di parole [emerge ora] un certo scetticismo. [Mi accorgo infatti che] la coscienza è una parola che comincia a scomparire dal linguaggio usuale, [sostituita dal] Dovere: imperativo, standardizzato, uguale per tutti[44]» |
Il pezzo, sfuggito alla censura fascista, attirò l'attenzione di Carlo Rosselli. L'esule, che aveva conosciuto Montanelli a Parigi, si augurò su Giustizia e Libertà che l'Abissinia potesse aver guarito «Indro Montanelli da molte illusioni»[44].
Manlio Morgagni, direttore dell'Agenzia Stefani e fedelissimo di Mussolini, lo avrebbe voluto come corrispondente da Asmara, ma la trattativa non ebbe esito positivo. Quando il padre ritornò in Italia, Indro lo seguì (agosto 1936)[45].
Nell'aprile 1937 Montanelli si presentò alla redazione del neonato settimanale d'informazione Omnibus. Conobbe Leo Longanesi, di soli cinque anni più anziano, ma già un giornalista-editore esperto. Tra i due nacque una duratura amicizia. Nello stesso anno Montanelli partì per la Spagna, dov'era scoppiata la guerra civile, come corrispondente per il quotidiano romano Il Messaggero, scrivendo articoli anche per Omnibus. In un resoconto sulla battaglia di Santander descrisse la resa della guarnigione repubblicana facendo questa osservazione: «È stata una lunga passeggiata militare con un solo nemico: il caldo»[19][46]. La sua simpatia per gli anarchici spagnoli lo portò ad aiutare uno di loro, che accompagnò fuori della frontiera: il gesto venne ricompensato da «El Campesino»[47], capo anarchico della 46ª divisione nella Guerra di Spagna, con il dono di una tessera della Federación Anarquista de Cataluña di cui Montanelli si sarebbe fregiato per tutta la vita[48].
Una volta rimpatriato, il Minculpop, con l'intervento diretto di Mussolini, lo cancellò dall'albo dei giornalisti per l'articolo sulla battaglia di Santander, considerato offensivo per l'onore delle forze armate italiane. Gli fu anche tolta la tessera del partito[46], e lui non fece nulla per riaverla. Alla vigilia del processo con il quale avrebbe potuto essere condannato al confino, Montanelli anticipò che in dibattimento avrebbe chiesto che venisse fatto il nome di un morto, anche uno solo[19]. Per evitare il peggio, Giuseppe Bottai, allora ministro dell'Educazione nazionale e suo amico dai tempi dell'Etiopia[12], prima gli trovò in Estonia un lettorato di lingua italiana nell'Università di Tartu, poi lo fece nominare direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di Tallinn, la capitale (a.a. 1937/38)[49]. Come racconta in Pantheon Minore, a Tallinn, su richiesta del colonnello russo Engelhardt, Montanelli diede ospitalità alla moglie russa di Vidkun Quisling, che di lì a qualche anno sarebbe divenuto il capo del regime collaborazionista di Oslo, avendo modo in quell'occasione di conoscere anche il futuro fører di Norvegia[12][50]. Dalla capitale estone Montanelli scrisse articoli per L'Illustrazione Italiana e per il quotidiano torinese La Stampa[51].
Nell'estate del 1938 ottenne un congedo estivo. Tornato a Milano, conobbe la nobildonna austriaca Margarethe de Colins de Tarsienne (Rovereto, 18 dicembre 1911 - 20 giugno 2013)[53] e se ne innamorò[54][55]. Deciso a non ritornare più in Estonia, chiese a Ugo Ojetti di essere presentato al direttore del Corriere della Sera Aldo Borelli. Ojetti, che credeva nel talento giornalistico di Montanelli, fece il suo nome a Borelli[56]. Il primo articolo di Montanelli sul Corriere fu pubblicato il 9 settembre 1938[57] (Fattoria canadese. Avventura nella prateria, che apparve in in Terza pagina)[58]. Borelli gli spiegò che non poteva assumerlo poiché non aveva la tessera del partito. Lo nominò «redattore viaggiante» (il moderno inviato) senza contratto[59][60]. Montanelli prese una stanza nell'appartamento dove alloggiavano Dino Buzzati e Guido Piovene. In breve tempo i tre divennero amici[61].
Nel settembre di quell'anno si tenne la Conferenza di Monaco. Dopo le assise fu chiaro che Hitler non avrebbe rinunciato alle sue mire espansioniste. Da qui la decisione del governo Mussolini di occupare l'Albania per contenere l'avanzata del Reich. In novembre Aldo Borelli inviò Montanelli a Tirana. Le sue corrispondenze servivano a preparare l'opinione pubblica italiana all'annessione[62]. Appena giunto ricevette dall'Ambasciatore Francesco Jacomoni l'incarico di scrivere un saggio sul Paese balcanico. I suoi servizi per il Corriere confluirono nel libro Albania una e mille (pubblicazione finanziata dal Minculpop). Montanelli lasciò il paese balcanico nel marzo 1939, prima dell'invasione italiana.
Nell'agosto 1939 il Corriere gli diede l'incarico di seguire un gruppo di 200 giovani fascisti che, simboleggiando l'Asse Italia-Germania, partirono da Venezia in bicicletta per raggiungere Berlino. Al passo del Brennero furono raggiunti da una colonna della Hitlerjugend, che li accompagnò fino alla capitale tedesca[12]. Fra le sue corrispondenze ve ne fu una in cui s'inventò che i ciclisti italiani si sarebbero fermati in Austria ad aiutare i coloni a mietere il grano[12]. Tutti i giornali concorrenti rimproverarono i propri inviati per aver "bucato" la notizia[63].
Il 1º settembre 1939 – primo giorno dell'invasione tedesca della Polonia – egli si trovava nelle vicinanze di Danzica: qui incontrò Adolf Hitler, accompagnato dallo scultore Arno Breker e dall'architetto Albert Speer (che confermò nel 1979 la veridicità del fatto)[64].
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Montanelli si recò sui fronti di guerra europei: oltre all'invasione della Polonia, il giornalista assistette a quella dell'Estonia da parte dell'URSS di Stalin. Giunto in Finlandia nell'ottobre 1939, fu appassionato testimone della guerra russo-finlandese: nei suoi articoli per il Corriere della Sera traspare la forte adesione alla causa del paese sopraffatto dal gigante comunista. Quelle corrispondenze per il Corriere diedero fama a Montanelli presso i lettori italiani, e furono poi raccolte nel volume I cento giorni della Finlandia. Fu l'unico giornalista occidentale, insieme con Martha Gellhorn, fotogiornalista USA, testimone dell'occupazione sovietica di Helsinki nel 1940[65]. Dopo il trattato di pace di Mosca del 12 marzo 1940, si trasferì in Norvegia per seguire l'invasione del Paese da parte dei tedeschi, assistendo al disastroso sbarco inglese di Namsos. I reportage dal fronte valsero a Montanelli l'assunzione al Corriere come inviato di guerra il 29 gennaio 1940: a maggio rientrò in Italia.
Il 10 giugno 1940 si trovava a Roma, dove ascoltò la dichiarazione di guerra di Mussolini all'Inghilterra e alla Francia. Montanelli fu inviato in Francia, ma pochi giorni dopo andò nei Balcani, soprattutto in Romania. Alla fine di ottobre era in Albania, da dove, come corrispondente, seguì la disastrosa campagna militare italiana contro la Grecia. Raccontò di aver scritto poco, per malattia ma soprattutto per onestà intellettuale: il regime gli imponeva l'obbligo di propaganda, ma sotto i suoi occhi l'esercito italiano subiva batoste dai greci[66]. A metà aprile 1941 rientrò in Italia per alcuni mesi, poi seguì la seconda guerra russo-finlandese. In Albania tornò nel maggio 1942 e due mesi dopo si recò nella Croazia di Ante Pavelić, dove ebbe modo di vedere il campo di concentramento di Jasenovac. Dal settembre 1942 al luglio 1943 collaborò al settimanale Tempo di Alberto Mondadori con lo pseudonimo di «Calandrino»[67].
Il 24 novembre 1942 sposò Margarethe, con cui era fidanzato da quattro anni. Fu il cardinale di Milano Ildefonso Schuster – lo stesso che, con il suo intervento, avrebbe salvato poi Indro dalla fucilazione nel 1944 – a sposarli nella Chiesa di San Gottardo in Corte. Per ottenere i documenti necessari – causa di complicazioni, visto che l'Austria nel 1938 era stata annessa alla Germania – il Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano mandò una persona a Berlino per ottenere il permesso di matrimonio[67]. I due vissero un'unione contrastata, che si concluse con la separazione nel 1951[68][69].
Con la principessa Maria Josè di Savoia, sua amica, Montanelli intrattenne a Milano e Roma colloqui privati di tono antifascista; dopo la guerra scoprì che le conversazioni, spiate e trascritte, furono la causa del suo arresto. Bastò solo affermare: «Altezza, è ora che Casa Savoia si districhi da questa responsabilità, è ora che faccia qualcosa»[70] per inserire Montanelli nella lista dei traditori del regime. Il 26 luglio 1943 Montanelli si trovava a Portofino quando apprese la notizia dell'arresto di Mussolini: scrisse vari articoli antifascisti, sul Corriere della Sera e su Tempo.
Quando l'Italia, dopo l'8 settembre 1943, cadde sotto l'occupazione tedesca, decise di aderire al gruppo clandestino di Giustizia e Libertà. Ma prima che riuscisse ad unirsi alle formazioni combattenti fu scoperto dai nazi-fascisti.
Il 5 febbraio 1944 Indro Montanelli e la moglie Margarethe furono arrestati dietro una soffiata della portinaia dello stabile in cui viveva la moglie del giornalista. Un paio di giorni dopo i due coniugi si ritrovarono in una cella in una prigione tedesca di Gallarate. L'accusa per il giornalista fu di aver pubblicato su Tempo degli articoli considerati diffamatori del regime nell'ottobre 1943[71].
Ecco la deposizione resa da Montanelli nel primo interrogatorio nella prigione tedesca:
«Dal 1938 non appartengo più al Partito fascista. Sono liberale ma non ho svolto nessuna attività in seno al partito omonimo. Ho considerato un giorno di lutto nazionale quello dell'alleanza fra Italia e Germania; ugualmente catastrofico per noi e per voi il nostro intervento in guerra. Considero l'8 settembre come un evento vergognoso e necessario. Come Ufficiale sono fedele al Re. E, siccome il Re è in guerra con voi, anch'io mi considero in guerra con voi. Se l'8 settembre avessi rivestito l'uniforme non mi sarei arreso. Non odio la Germania. Riterrei catastrofica per il mio Paese una sua completa vittoria, così come una sua completa sconfitta. Dopo l'8 settembre ho avuto più volte la tentazione di arruolarmi nelle bande, ma vi ho sempre rinunziato: vorrei combattere come soldato, ma, non potendolo, rinunzio a combattervi come bandito[73].» |
La moglie fu tenuta in carcere sotto la seguente accusa: «Essendo al corrente delle opinioni e dell'attività del marito, non lo denunziava». A Montanelli fu comunicato: «La sua fucilazione è inevitabile» e fu consegnato al reparto dei condannati a morte. La sua condanna a morte venne portata alla firma il 15 febbraio, per poi essere revocata per una prosecuzione d'inchiesta[74].
Nei tre mesi successivi Montanelli spedì dal carcere diverse lettere e biglietti, sia ad amici e parenti sia a persone altolocate (tra cui anche l'arcivescovo di Milano, il cardinale Schuster), costruendo così una fitta rete di sostegno[75][76][77][78][79][80][81]. Nello stesso periodo, tutti i suoi vicini di cella (26 persone) vennero portati al muro e fucilati, tranne lui. Il 6 maggio Montanelli e la moglie vennero prelevati dal carcere tedesco e trasferiti nel carcere di San Vittore[82]. Il giornalista ebbe l'occasione di conoscere il giovanissimo Mike Bongiorno (sorpreso a fare la staffetta per i partigiani) e il generale Della Rovere, in realtà una spia infiltrata dai tedeschi, Giovanni Bertone (che si rifiutò di fare la spia e venne fucilato dai tedeschi)[83]. Le condizioni di vita migliorarono notevolmente: le guardie erano italiane e il CLN aveva in carcere i suoi delegati.
Ma in luglio cominciarono le fucilazioni anche a San Vittore. Di nuovo, uno dopo l'altro i suoi compagni di prigionia furono messi al muro. Con l'aiuto di più persone, tra le quali anche Luca Ostèria, funzionario dell'OVRA (che fabbricò un falso ordine di trasferimento)[84][85], un giorno prima della data prevista per l'esecuzione, Montanelli e un altro prigioniero vennero prelevati dal carcere e portati in un nascondiglio. Passati dieci giorni, i fuggitivi, con l'appoggio del CLN[86], furono condotti fino a Luino, al confine con la Svizzera. A piedi Montanelli raggiunse la città di Lugano. Dall'esperienza trascorsa nella prigione di Gallarate e poi in quella di San Vittore trasse ispirazione per il romanzo Il generale Della Rovere[87].
Accolto con freddezza, sospetto e ostilità dai fuorusciti italiani antifascisti[67] (cosa che non dimenticherà mai di ricordare), rimase in Svizzera, collaborando a diversi giornali, sino alla fine della guerra: Lugano (agosto-ottobre 1944); Davos (ottobre 1944-febbraio 1945); Berna (marzo-maggio 1945). Qui Montanelli pubblicò nel 1945 su L'Illustrazione Ticinese il romanzo Drei Kreuze (Tre croci), ispirato al romanzo di Thornton Wilder Il ponte di San Luis Rey. La storia inizia il 17 settembre 1944, quando in Val d'Ossola un prete seppellisce tre sconosciuti commemorandoli con tre croci. Il romanzo apparve in italiano con il titolo Qui non riposano, stroncato dai critici[senza fonte].
Quando Montanelli fece ritorno in Italia il 29 aprile 1945 trovò al Corriere della Sera una situazione molto diversa rispetto a quando l'aveva lasciato[88]. Il Corriere era stato commissariato per decreto del Comitato di Liberazione Nazionale. Il nuovo direttore, Mario Borsa, aveva organizzato l'epurazione di vari giornalisti ritenuti colpevoli di connivenza con il regime di Salò[89]. A indicare i nomi degli epurati fu designato Mario Melloni, il futuro «Fortebraccio», che «siccome era un galantuomo, alle fine non epurò nessuno, o quasi. Io [Montanelli] fui uno dei pochi»[89].
Montanelli dovette ricominciare dal «settimanale popolare» del Corriere, La Domenica del Corriere (all'epoca intitolata Domenica degli Italiani), di cui assunse la direzione nello stesso anno. Solo alla fine del 1946 poté tornare in via Solferino. Nel corso dell'anno lui e Leo Longanesi si occuparono, curarono e adattarono le memorie di Quinto Navarra, pubblicate nel libro Memorie del cameriere di Mussolini, edito dalla Longanesi. Nel frattempo, Montanelli era stato reintegrato nell'Albo dei giornalisti[90]. Il 2 giugno 1946 al referendum istituzionale votò per la Monarchia.[91]
Nel settembre 1945 uscì in Italia Qui non riposano, nel quale Montanelli ripercorse la propria biografia politica, dall'adesione giovanile al fascismo alla critica, fino all'antifascismo conservatore cui approdò alla fine della guerra. Fin dalla sua prima uscita nell'inverno 1944-1945 in Svizzera, suscitò polemiche per il ritratto impietoso dell'Italia, sia di quella sotto il fascismo sia di quella occupata dai nazisti, assai diversa dalla pubblicistica antifascista dell'epoca già grondante di retorica. Montanelli faticò non poco a trovare un editore: dopo vari rifiuti, fu il libraio Antonio Tarantola a stamparlo a Milano. Il successo fu immediato: l'opera ebbe dodici ristampe in due mesi e fu ristampata da Mondadori tre anni dopo[92].
Identica difficoltà nel trovare un editore ebbe con il pamphlet Il buonuomo Mussolini, pubblicato nel 1947 da un semiclandestino stampatore milanese. Il libro riscosse subito un grande successo di vendite, ma sollevò anche fortissime polemiche, nel clima di «ribollenti passioni partigiane» che animava il capoluogo lombardo nel primo dopoguerra. In seguito a tali polemiche, Montanelli fu costretto ad abbandonare Milano per diversi mesi, per sottrarsi a prevedibili rappresaglie[93].
Per l'amico Leo Longanesi – segnalato all'industriale Giovanni Monti da Montanelli per la creazione di una nuova casa editrice, la Longanesi & C. – pubblicò alcune opere, come il reportage sulla Resistenza tedesca al nazismo Morire in piedi, nel 1949. Nel 1950 fu tra i fondatori – insieme a Giovanni Ansaldo, Henry Furst – del settimanale Il Borghese, diretto da Longanesi. Scrisse fin dal primo numero, del 15 marzo 1950. La collaborazione con il periodico proseguì fino al 1956. In quell'anno s'interruppe l'amicizia tra i due: i rapporti si incrinarono a causa delle corrispondenze di Montanelli sulla rivolta antisovietica d'Ungheria dell'autunno 1956, non gradite a Longanesi. Solo pochi giorni prima della morte, dopo una lettera riconciliatoria di Montanelli a Longanesi, si riappacificarono.
Montanelli, oltre che con Longanesi, strinse un'amicizia profonda con un altro personaggio importante nella cultura italiana dell'epoca, Dino Buzzati[94]. Il terzo intellettuale con cui Montanelli strinse una forte e duratura amicizia fu Giuseppe Prezzolini, che stimava per l'indipendenza di pensiero; egli conosceva bene la rivista che Prezzolini aveva fondato nel 1909, La Voce, che considerava uno dei migliori prodotti del giornalismo culturale italiano. Montanelli fu amico personale dell'ambasciatrice americana, la signora Clare Boothe Luce, di cui tra l'altro apprezzava il deciso anticomunismo, tanto che nel 1954, in una lettera personale, si rivolse a lei in questi termini:
«Se alle prossime elezioni un Fronte Popolare comunque costituito raggiungesse la maggioranza, Scelba cosa farebbe? Consegnerebbe il potere, e sarebbe la fine. [...] Ma debbo aggiungere qualcosa di più: qualunque uomo di governo, oggi, anche non democristiano, si arrenderebbe per totale impossibilità di compiere un colpo di Stato. Gli mancherebbe tutto, per osarlo: la polizia e l'esercito sono inquinati di comunismo; i carabinieri, senza il Re, hanno perso ogni mordente; la magistratura è vile. E in tutto il paese non c'è una forza capace di appoggiare l'azione di un uomo risoluto. Noi dobbiamo creare questa forza. Quale? Non si può sbagliare, guardando la storia del nostro Paese, che è quella di un sopruso imposto da una minoranza di centomila bastonatori. Le maggioranze in Italia non hanno mai contato: sono sempre state al rimorchio di questo pugno di uomini che ha fatto tutto con la violenza: l'unità d'Italia, le sue guerre e le sue rivoluzioni. Questa minoranza esiste ancora e non è comunista. È l'unica nostra fortuna. Bisogna ricercarla individuo per individuo, darle una bandiera, una organizzazione terroristica e segreta… e un capo. [...] De Gasperi nella lotta contro il comunismo non serve più, come non servono più gli altri uomini e partiti dell'attuale regime. Di fronte a questa realtà, mi trovo in questo dilemma: difendere la democrazia fino ad accettare, per essa, la morte dell'Italia: o difendere l'Italia fino ad accettare, o anche affrettare, la morte della democrazia? La mia scelta è fatta... Suo, sinceramente, Indro Montanelli[95].» |
Nel 1998 Montanelli sostenne, a proposito del rapporto con la Luce:
«Non volevamo il golpe. Volevamo essere pronti alla resistenza, a una nuova resistenza: se prendono il potere i comunisti, che naturalmente avranno alle spalle le forze armate sovietiche, noi ci battiamo... C'erano già delle formazioni che si erano date alla montagna, per esempio quella di Carlo Andreoni, che conoscevo bene perché era stato mio compagno a San Vittore. E c'era Sogno che cominciava ad agitarsi. Però quelli lì volevano il golpe, io no: ecco perché non ero con loro. Finché si poteva difendere la democrazia si difendeva la democrazia, era soltanto nel caso in cui la democrazia venisse seppellita dalle cose... Io non avevo nulla a che fare con i De Lorenzo e compagnia bella. E la Luce era perfettamente d'accordo: era lei che mi pregava di mettere tutto per iscritto[96].» |
Oltre a Montanelli erano coinvolti vari industriali italiani – tra cui Furio Cicogna – e figure come Dino Grandi e Vittorio Cini. Il progetto fallì a causa dell'impossibilità di trovare un accordo tra Montanelli, Grandi, Cini e Clare Luce. Montanelli confidava in Clare Boothe Luce, che però disse di avere le mani legate (stando ai diari di Indro). Grandi temeva che iniziative più aggressive venissero associate a un «rigurgito fascista». Cini premeva per una campagna anticomunista da svolgere tramite la stampa[97]. La stessa ambasciatrice non mostrò però alcuna apertura verso l'istituzione della vagheggiata «guardia civile» o verso richieste di intervento giunte per esempio da Franco Marinotti, sempre nel 1954[98].
Sino alla fine del 1953 Montanelli fu impegnato come inviato speciale del Corriere, spesso all'estero. Dal 1954 incominciò la sua collaborazione stabile con Il Borghese, in cui firmò gli articoli sotto gli pseudonimi di Adolfo Coltano (con riferimento al campo di prigionia in cui, nei mesi successivi alla Liberazione, erano stati rinchiusi numerosi appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana) e Antonio Siberia e di cui fu una delle tre colonne portanti, assieme a Longanesi e Giovanni Ansaldo[92]. Nel 1956 Longanesi e Montanelli diedero una descrizione opposta della rivolta d'Ungheria: i rapporti tra i due si raffreddarono. Montanelli interruppe la collaborazione al Borghese.
Nello stesso periodo accettò la richiesta di Dino Buzzati di tornare a collaborare con La Domenica del Corriere. Buzzati gli diede una pagina intera; nacque la rubrica Montanelli pensa così, che divenne poi La Stanza di Montanelli, uno spazio in cui il giornalista rispondeva ai lettori sui temi più caldi dell'attualità. In breve tempo diventò una delle rubriche più lette d'Italia. Grazie al successo della rubrica, Montanelli accettò di scrivere a puntate la storia dei Romani e poi quella dei Greci. Cominciò così la carriera di storico, che fece di Montanelli il più venduto storico italiano (solo la Storia d'Italia ha venduto, al 2004, oltre un milione di copie, e risulta il saggio storico di maggior successo negli annali dell'editoria italiana).
Il primo libro venne intitolato Storia di Roma e fu pubblicato a puntate sulla Domenica del Corriere e poi, nel 1957, raccolto in volume per la Longanesi. Nel 1959 Montanelli passò dalla Longanesi alla Rizzoli Editore[99]. Da quell'anno in poi la Rizzoli pubblicò tutti gli altri volumi. La serie continuò con la Storia dei Greci, per poi riprendere con la Storia d'Italia dal Medioevo ad oggi.
Quando la parlamentare socialista Lina Merlin nel 1956 propose un disegno di legge che prevedeva l'abolizione della regolamentazione della prostituzione in Italia e la lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui, in particolare attraverso l'abolizione delle case di tolleranza, Montanelli si batté pervicacemente contro quella che veniva già chiamata – e si sarebbe da allora chiamata – legge Merlin. Diede alle stampe un pamphlet intitolato Addio, Wanda! Rapporto Kinsey sulla situazione italiana, un libello satirico nel quale scriveva tra l'altro:
«In Italia un colpo di piccone alle case chiuse fa crollare l'intero edificio, basato su tre fondamentali puntelli, la Fede cattolica, la Patria e la Famiglia. Perché era nei cosiddetti postriboli che queste tre istituzioni trovavano la più sicura garanzia.» |
Nello stesso 1956 la sua attività d'inviato aveva portato Montanelli a Budapest, dove fu testimone della rivoluzione ungherese. La repressione sovietica gli ispirò la trama di un'opera teatrale, I sogni muoiono all'alba (1960), da lui portata anche al cinema l'anno successivo insieme a Mario Craveri ed Enrico Gras, con Lea Massari e Renzo Montagnani nel ruolo dei giovani protagonisti.
Nel 1959 Montanelli fu protagonista della prima intervista rilasciata da un Papa a un quotidiano laico[100], pubblicando il resoconto di un suo incontro con Papa Giovanni XXIII. Il pontefice, tramite il suo segretario Loris Capovilla, aveva informato il direttore del Corriere, Mario Missiroli, di voler concedere un'intervista a un giornalista esterno al mondo cattolico. Missiroli designò perciò Montanelli al posto del vaticanista del Corriere, Silvio Negro. Superato l'iniziale imbarazzo nel trovarsi di fronte a un mondo a lui non familiare, il giornalista intrattenne una lunga conversazione con il Papa, il quale gli confidò anche alcune sue opinioni private, come la sua scarsa stima per il suo predecessore Pio X, canonizzato alcuni anni prima[101]. L'incontro con Giovanni XXIII fu pubblicato sulla terza pagina del Corriere, cosa che Montanelli considerò una posizione inadatta per lo storico evento (il giornalista attribuì questa scelta di Missiroli alla sua preoccupazione di non offendere Negro per l'esclusione)[100]. D'altra parte, il direttore rimproverò a Montanelli di avere relegato a un accenno la storica decisione dell'indizione del Concilio Vaticano II, una notizia che Giovanni XXIII aveva ufficializzato proprio durante l'incontro: Montanelli, inesperto del linguaggio ecclesiastico, non aveva colto l'importanza dell'annuncio[101].
Nel 1962 pubblicò un'inchiesta sull'Eni e il suo presidente, Enrico Mattei, uscita a puntate dal 13 al 17 luglio. Pur ammirandolo come imprenditore, Montanelli contestò il fatto che avesse escluso i privati dalla ricerca di un ipotetico petrolio italiano, oltre a speculare sulla «rendita petrolifera», realizzando profitti immensi e incontrollati, che gli hanno consentito di espandersi in settori non collegati all'attività dell'Eni. Un altro motivo di contestazione fu l'aver firmato contratti petroliferi all'estero (ad esempio in Egitto e in Iran) senza nessuna convenienza economica per l'Eni, solo per dare fastidio alle Sette sorelle. Montanelli scrisse inoltre che Mattei, per la stessa ragione, decise di costruire un grande oleodotto europeo (quando le compagnie concorrenti ne avevano già progettato uno analogo), si mise in affari con l'URSS (scavalcando lo Stato nelle decisioni di politica estera) e si servì delle larghe disponibilità occulte dell'azienda per offrire «sussidi» a vari partiti e organi di stampa[102][103][104][105][106]. Il presidente dell'Eni scrisse una lettera risentita e cavillosa[107] e Montanelli controreplicò ribadendo punto per punto le proprie affermazioni: gli rimproverò di non aver risposto a nessuna delle sue domande, «attaccandosi ai particolari tecnici», e che nulla si era saputo a proposito della «rendita metanifera», dei profitti occultati e adoperati per finanziare i partiti (in particolare la DC) e sui contratti pubblicitari con cui l'Eni condizionava la stampa[108].
Montanelli aggiunse che Mattei continuava a violare le leggi, trattava «spregiativamente di "Catone" il giornalista che, non senza il condimento di molte lodi e il riconoscimento delle sue grandi qualità, ha osato criticarlo» e concluse che il presidente Eni cercò di individuare chi c'era dietro l'inchiesta del Corriere della Sera[108]. In merito a questi timori scrisse che dietro quell'inchiesta non c'erano né ministri né monopoli privati, ma soltanto «il disagio di una opinione pubblica che, avvertendo in aria qualcosa che non va, vuol sapere cos'è e di dove viene»[108].
Nel 1963, dopo il disastro del Vajont, Montanelli assunse una posizione controversa in merito alle reali cause della tragedia[109] affermando il carattere di catastrofe naturale della stessa e tacciando di «sciacallaggio» l'attività di alcuni giornalisti italiani, tra i quali Tina Merlin de l'Unità, che avevano denunciato i rischi derivanti dalla costruzione della diga per l'incolumità della popolazione[109]: nel 1998, rispondendo a un lettore, raccontò che quella presa di posizione fu dovuta al comportamento di una certa stampa che, senza avere prove in quel momento, cercava di addossare tutta le responsabilità all'industria privata per accontentare quella parte politica che reclamava la nazionalizzazione dell'industria elettrica[109], riconoscendo l'errore ma affermando che forse, in circostanze analoghe, l'avrebbe ricommesso[109].
A partire dal 1965 partecipò attivamente al dibattito sul colonialismo italiano. In accesa polemica con lo storico Angelo Del Boca, Montanelli sostenne ostinatamente l'opinione secondo cui quello italiano fu un colonialismo mite e bonario, portato avanti grazie all'azione di un esercito cavalleresco, incapace di compiere brutalità, rispettoso del nemico e delle popolazioni indigene[110]. Nei suoi numerosi interventi pubblici negò ripetutamente l'impiego sistematico di armi chimiche come iprite, fosgene e arsine da parte dell'aviazione militare italiana in Etiopia[23][111], salvo poi scusarsi nel 1996 quando il suo oppositore dimostrò, documenti alla mano, l'impiego di tali mezzi di distruzione[112].
Dichiaratamente anticomunista, anarco-conservatore (come amava definirsi su suggestione del grande amico Prezzolini), liberale[73][113][114][115] e controcorrente, vedeva nelle sinistre un pericolo incombente[116], in quanto finanziate dall'allora superpotenza sovietica[117].
Nel 1968 Montanelli pubblicò sul Corriere una serie di inchieste sulle città verso le quali nutriva maggiore interesse. I servizi riguardarono, tra le altre, Firenze e Venezia. Il giornalista dedicò ampio spazio alla Serenissima[118], lanciando l'allarme per la salvaguardia della città. Montanelli rilevò i pericoli che la crescente industrializzazione stava arrecando al delicato ecosistema lagunare. Stabilì un rapporto causa-effetto tra la forte industrializzazione della zona attorno a Porto Marghera e l'inquinamento a Venezia, la città e i suoi monumenti. Infine denunciò il silenzio delle pubbliche autorità, che continuavano a ignorare i sintomi del degrado della laguna (su tutti l'acqua alta, che proprio in quegli anni incominciava a essere molto frequente). Impiegò, in quest'opera di impegno civile svincolata da tematiche o colorazioni partitiche, tutta la sua autorevolezza personale[119]. L'anno seguente, nel 1969, Montanelli registrò tre reportage televisivi per la Rai, dedicati rispettivamente a Portofino, Firenze e Venezia[120][121].
A partire dalla metà degli anni sessanta, dopo la morte di Mario e Vittorio Crespi e la grave malattia del terzo fratello Aldo, la proprietà del Corriere della Sera fu gestita dalla figlia di quest'ultimo[78]. Sotto il controllo di Giulia Maria, il quotidiano operò una netta virata a sinistra. La nuova linea venne varata nel 1972, con il licenziamento in tronco del direttore Giovanni Spadolini e la sua sostituzione con Piero Ottone.
Montanelli diede un giudizio tagliente sull'operazione. In un'intervista a L'Espresso dichiarò che «un direttore non lo si caccia via come un domestico ladro» e, rivolgendosi ai Crespi, stigmatizzò il «modo autoritario, prepotente e guatemalteco che hanno scelto per imporre la loro decisione»[122]. L'articolo fece sensazione. Montanelli ricevette addirittura una proposta di candidatura alle imminenti elezioni politiche[123] da Ugo La Malfa, segretario del Partito Repubblicano Italiano e suo amico personale (era stato lui a introdurre il giornalista, nel 1935, nel gruppo di antifascisti che in seguito avrebbero fondato il Partito d'Azione)[124]. Montanelli declinò la proposta, girandola signorilmente a Spadolini. Un altro terreno di scontro con la proprietà del Corriere della Sera fu la sostituzione del capo della redazione romana, Ugo Indrio. Dopo il cambio di direttore, Indrio fu costretto a dimettersi: Montanelli lo difese, ma non riuscì ad evitare il suo allontanamento.
Nello stesso anno fu uno dei pochissimi giornalisti a scrivere che l'uccisione del commissario Luigi Calabresi era la conseguenza di una campagna diffamatoria senza precedenti, scatenata dall'estrema sinistra e sostenuta da molti intellettuali[125]. Rispondendo a un lettore, pochi giorni dopo il massacro di Monaco di Baviera, prese anche posizione a favore dello Stato d'Israele nelle guerre arabo-israeliane, scrivendo:
«Che i profughi palestinesi siano delle povere vittime, non c'è dubbio. Ma lo sono degli Stati arabi, non d'Israele. Quanto ai loro diritti sulla casa dei padri, non ne hanno nessuno perché i loro padri erano dei senzatetto. Il tetto apparteneva solo a una piccola categoria di sceicchi, che se lo vendettero allegramente e di loro propria scelta. Oggi, ubriacato da una propaganda di stampo razzista e nazionalsocialista, lo sciagurato feddayn scarica su Israele l'odio che dovrebbe rivolgere contro coloro che lo mandarono allo sbaraglio. E il suo pietoso caso, in un modo o nell'altro, bisognerà pure risolverlo. Ma non ci si venga a dire che i responsabili di questa sua miseranda condizione sono gli "usurpatori" ebrei. Questo è storicamente, politicamente e giuridicamente falso[126].» |
A partire dal 1973 Montanelli cominciò a esprimere il proprio malumore sulla conduzione del giornale. Piero Ottone replicò con un articolo di fondo nel quale ribadiva la giustezza della propria posizione. Per evitare quella che considerava l'«autocensura rossa» attuata da molti colleghi, Montanelli scelse di limitarsi a curare una rubrica settimanale, Montanelli risponde[127]. Il giornalista entrò definitivamente in rotta di collisione con la proprietà in seguito a due interviste rilasciate nell'ottobre 1973 e a un articolo molto polemico[128] nei confronti di Camilla Cederna (definita radical chic)[129], grande amica di Giulia Maria Crespi. La prima intervista fu pubblicata il 10 ottobre sul settimanale politico-culturale Il Mondo. Montanelli dichiarava a Cesare Lanza:
«Non esiste un contrasto personale fra Piero Ottone e me. Siamo, anzi, in ottimi rapporti. C'è piuttosto un'impostazione del Corriere della Sera del tutto diversa da quella che è la tradizione del giornale: dissensi sull'attuale indirizzo esistono e sono stati apertamente manifestati. Un dissenso niente affatto sotterraneo, un dibattito; e può darsi che esso si concluda con la sconfitta di chi sostiene questi valori tradizionali. In questo caso, potrebbe avvenire una secessione.» |
(Giampaolo Pansa, Comprati e venduti, Milano, Bompiani, 1977, p. 143.) |
E concludeva lanciando un appello:
«Ci vorrebbe da parte di una certa borghesia lombarda, che si sente defraudata dal suo giornale, un gesto di coraggio, di cui però questa borghesia, capace in fondo solo di brontolare, non è capace.» |
(Giampaolo Pansa, op. cit., p. 143.) |
La seconda uscì il 18 ottobre su Panorama. L'intervista, raccolta da Lamberto Sechi, venne pubblicata con il titolo Montanelli se ne va. E nel lungo sommario: «"A novembre mi metto in pensione", annuncia il più famoso giornalista italiano. I motivi: dissensi sulla nuova linea del Corriere, vecchia ruggine con uno dei proprietari, Giulia Maria Crespi. Per adesso pensa a portare a termine gli ultimi volumi della sua Storia d'Italia. Ma non gli dispiacerebbe, dice, fondare un nuovo giornale». L'editorialista spiegava:
«Tra virgolette, ora mi si può solo attribuire questo: il Corriere era un giornale misto, nel senso che conciliava il tipo di giornale a grande tiratura con quello di giornale d'élite. È molto probabile che questo compromesso si basasse su un tipo di pubblico e di società che non esiste più e che quindi oggi ci si deva [sic] rinunciare. Questa rinuncia Ottone la sta compiendo con coerenza (il giornale è anche tecnicamente fatto bene) e forse non poteva esimersi dal compierlo. Ma mette me in estremo disagio. Non gliene faccio alcun rimprovero. Semplicemente constato che le mie attitudini, la mia mentalità, il mio stile, tutto mi rende difficile l'adeguamento.» |
(Franco Di Bella, Corriere segreto, Milano, Rizzoli, 1982, p. 402 (Appendice).) |
Nel seguito dell'articolo, Panorama scriveva che Montanelli stava già pensando di realizzare un nuovo giornale con alcuni suoi fedelissimi, molti dei quali lavoravano con lui al Corriere. Avuta l'anticipazione del testo, il 17 ottobre, Giulia Maria Crespi e Piero Ottone non apprezzarono affatto l'intervista. Quello stesso giorno, in serata, Ottone si recò al domicilio milanese di Montanelli per comunicargli la decisione del suo licenziamento. Montanelli, però, se ne andò volontariamente, presentando le dimissioni e accompagnandole da un polemico articolo di commiato. L'articolo non fu pubblicato: il Corriere diede la notizia con un comunicato, su una colonna, il 19 ottobre (in un'intervista concessa a Franco Di Bella, Montanelli smentì di aver lasciato il giornale per incassare subito la liquidazione e rivelò che la cifra che ricevette fu di soli 75 milioni di lire, dopo 37 anni di carriera)[130].
Il giorno stesso della sua uscita dal Corriere, Montanelli ricevette un'offerta da Gianni Agnelli, che gli propose di scrivere su La Stampa. L'offerta fu accettata. Indro pubblicò il suo primo pezzo sul quotidiano torinese il 28 ottobre[131]. Montanelli lasciò anche la sua storica rubrica sul settimanale La Domenica del Corriere per traslocare sul concorrente Oggi[132]. Il vero obiettivo di Montanelli rimaneva comunque la fondazione di un quotidiano indipendente. Chiamò la nuova creatura il Giornale nuovo[133].
Nella sua «traversata nel deserto» dal Corriere della Sera al Giornale nuovo lo seguirono molti validi colleghi che, come lui, non condividevano il nuovo clima interno al Corriere, tra i quali Enzo Bettiza, Egisto Corradi, Guido Piovene, Cesare Zappulli, e intellettuali europei come Raymond Aron, Eugène Ionesco, Jean-François Revel e François Fejtő. All'inizio del 1974, quando il progetto di fondazione del nuovo quotidiano era ormai definitivo, giunse (grazie anche all'interessamento di Amintore Fanfani) un insperato sostegno finanziario da parte di Eugenio Cefis. Il presidente della Montedison gli fornì 12 miliardi di lire per tre anni[134].
Con quel finanziamento Montanelli tentò di avere dalla sua il nome di un importante editore. Tentò prima con Andrea Rizzoli (gli offrì il giornale gratis ma Rizzoli rispose di no perché era già in trattative per l'acquisto del Corriere della Sera) e poi con Mario Formenton, genero di Arnoldo Mondadori e amministratore delegato della casa editrice (anche lui disse di no, anche per il parere negativo di Giovanni Spadolini, cosa che fece arrabbiare molto Indro). In precedenza Montanelli aveva rifiutato di fare il giornale insieme ad Eugenio Scalfari (il primo direttore, il secondo condirettore) definendo la proposta di Scalfari un tantino azzardata. A quel punto Cefis affiancò a Indro due manager di provata esperienza: Angelo Morandi, per lungo tempo direttore amministrativo al quotidiano milanese Il Giorno e Antonio Tiberi, presidente di una società del gruppo Montedison, Industria, attiva nel settore editoriale[135][136][137]: Montanelli rimase comunque il proprietario della testata con i giornalisti cofondatori.
Nel marzo 1974 Montanelli annunciò pubblicamente dalle colonne della Stampa il suo progetto di fondare un nuovo giornale[138]: il suo ultimo articolo sul quotidiano torinese comparve il 21 aprile[139]. Nello stesso anno si sposò in terze nozze con la collega Colette Rosselli (1911-1996), corsivista del settimanale Gente, più nota con lo pseudonimo di «Donna Letizia». La relazione tra Montanelli e la Rosselli era già incominciata intorno al 1950 (nonostante vivessero sempre in case separate, lui a Milano e lei a Roma), ma il giornalista ottenne il divorzio da Margarethe Colins de Tarsienne solo nel 1972, a causa della legge italiana che non lo ammetteva fino al 1970[140].
«Nascemmo [...] per metterci contro il vento di quegli anni che soffiava in direzione del compromesso storico coi comunisti, della contestazione barricadiera, del giustizialismo, del pansindacalismo, della resa all'eversione, e per suonare la Diana della riscossa dei vecchi valori dello Stato di diritto, dell'ordine, della iniziativa privata, dell'economia di mercato, della meritocrazia, non per interpretare e propugnare i gusti e le tendenze del tempo, ma per contrastarli[141].» |
Con il Giornale – il primo numero uscì martedì 25 giugno 1974[142] – Montanelli intese creare una testata che esprimesse le istanze delle forze produttive della società, in particolare della piccola e media borghesia lombarda[143], inserendosi nel dibattito politico in guisa di interlocutore esterno alla politica, non schierato se non su orientamenti di massima e fautore di una destra ideale[144]. Il Giornale nuovo si avvalse della collaborazione di diverse grandi figure del giornalismo italiano: Enzo Bettiza nel ruolo di condirettore[145], Mario Cervi, Cesare Zappulli, Guido Piovene, come presidente della società dei redattori; vi scrissero grandi intellettuali liberali come Rosario Romeo, Renzo De Felice, Sergio Ricossa, Vittorio Mathieu, Nicola Matteucci, Raymond Aron e François Fejtő; alla critica letteraria Geno Pampaloni; per la filosofia Nicola Abbagnano; e ancora, Renato Mieli, Frane Barbieri, Giovanni Arpino e, più tardi, Gianni Brera[146].
La prassi giornalistica di Montanelli fu influenzata dal praticantato fatto negli Stati Uniti (1934-35), tenendo presente la massima imparata alla United Press, vale a dire che ogni articolo deve poter essere letto e capito da chiunque, anche da un «lattaio dell'Ohio». Divenne membro onorario dell'Accademia della Crusca, per la quale si batté, sulle pagine del Giornale, cercando di coinvolgere direttamente i suoi lettori, così che uno dei più antichi e importanti centri di studio sulla lingua italiana non scomparisse.
Nel 1975, Montanelli troncò la quarantennale amicizia con Ugo La Malfa. Il motivo della rottura, avvenuta in seguito ad una violenta lite[147], fu la decisione, da parte del presidente del PRI, di sostenere il compromesso storico, ovvero il riavvicinamento fra DC e PCI[143]. La lite sarebbe stata ricomposta solo nel 1979, pochi giorni prima della scomparsa di La Malfa[148].
Fra gli episodi che Montanelli ritenne a posteriori più importanti[143] nella storia della sua conduzione del Giornale, vi furono due campagne, entrambe lanciate nel 1976. La prima fu la raccolta fondi lanciata a favore delle vittime del terremoto del Friuli, che in poche settimane raccolse tre miliardi di lire. I proventi, affidati al cronista Egisto Corradi, vennero usati per la ricostruzione dei comuni di Vito d'Asio e Montenars e della frazione di Sedilis, nel comune di Tarcento.
L'altra campagna fu l'invito a votare per la Democrazia Cristiana, lanciato alla vigilia delle elezioni politiche italiane del 1976[143]. Dinanzi alla crescita del Partito Comunista Italiano, Montanelli sollecitò gli elettori moderati a impedire la salita al potere del partito di Berlinguer con uno slogan poi divenuto celebre[149]:
«Turiamoci il naso e votiamo DC.» |
(Frase originalmente detta da Gaetano Salvemini alla vigilia delle elezioni politiche del 1948, come affermato dallo stesso Montanelli.) |
Sempre nel 1976, Montanelli fu contattato da Mike Bongiorno, che gli propose di condurre, sulla nascente rete televisiva Telemontecarlo, un notiziario curato dalla redazione del Giornale. La trasmissione, anch'essa intitolata Il Giornale nuovo, ebbe un notevole successo nonostante gli scarsi mezzi tecnici a disposizione[150]. Costato solamente cento milioni di lire, il telegiornale, registrato in uno scantinato a Milano, fece registrare un'audience di alcuni milioni di telespettatori[143]. La popolarità della trasmissione fu accolta con ostilità dagli ambienti di sinistra: in particolare Eugenio Scalfari, direttore de la Repubblica, accusò TMC di essere una rete illegale e alcuni pretori ne bloccarono le frequenze[151].
Per tutto il periodo della sua conduzione, Montanelli curò sul Giornale una rubrica quotidiana, intitolata Controcorrente, in cui commentava in modo sarcastico fatti e personaggi d'attualità. Su questa rubrica, fra l'altro, proseguì il duello a distanza, già cominciato sulle colonne del Corriere della Sera, con Fortebraccio, divenuto corsivista per l'Unità. I due giornalisti, di opposte ideologie («Fortebraccio» era comunista) ma identica vis polemica, mascherarono in realtà sotto i reciproci attacchi una relazione personale di amicizia e stima, come testimoniato dall'ironico epitaffio che Mario Melloni dichiarò sull'Unità di volere per se stesso: «Qui giace Fortebraccio / che segretamente / amò Indro Montanelli. / Passante, perdonalo / perché non ha mai cessato / di vergognarsene». Montanelli, sul Giornale, replicò che avrebbe voluto essere seppellito a fianco del collega, sotto l'epitaffio: «Vedi / lapide / accanto»[152][153].
Nel 1978, in seguito al sequestro di Aldo Moro e all'uccisione della scorta da parte delle Brigate Rosse, il Giornale nuovo si schierò fin dal primo giorno per la linea della fermezza, scrivendo:
«Naturalmente noi facciamo i più fervidi voti perché la sua tragica avventura si concluda nel modo migliore. Ma al cittadino italiano non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo offrire lo spettacolo di uno Stato che contratta il proprio prestigio, la propria autorità, i propri doveri con la criminalità ideologizzata solo quando è in gioco la sopravvivenza di uno dei suoi esponenti. Quanto più alti siano questi esponenti, tanto più è doveroso che essi soggiacciano alla regola comune: con i terroristi non si tratta[154].» |
Durante i due mesi di sequestro Moro non fu mai torturato o minacciato dalle BR, e a tal proposito Montanelli criticò severamente le lettere scritte dal presidente democristiano durante la prigionia, affermando che «tutti a questo mondo hanno diritto alla paura. Ma un uomo di Stato (e lo Stato italiano era Moro) non può cercare d'indurre lo Stato ad una trattativa con dei terroristi che oltre tutto, nel colpo di via Fani, avevano lasciato sul selciato cinque cadaveri fra carabinieri e poliziotti»[155].
Altre critiche furono rivolte a Eleonora Chiavarelli, vedova di Aldo Moro diventata accusatrice della DC e della classe politica italiana pochi anni dopo l'omicidio del marito:
«C'era infatti qualcosa di trionfalistico nel tono con cui questa vedova nera della politica parlava dei politici e nel perentorio gesto con cui puntava il dito contro tutti. Tutti, eccettuati coloro che le hanno ammazzato il marito. Contro di essi, dalle cronache che ho letto, non ha sporto accuse, non ha pronunciato condanne, non li ha nemmeno guardati. Fosse dipeso da lei, il processo ai terroristi sarebbe diventato il processo alla Dc, di cui suo marito era presidente, al governo di cui suo marito era l'artefice e garante, e ai servizi di sicurezza di cui suo marito era stato l'affossatore[156].» |
Il Giornale nasce con il finanziamento di Eugenio Cefis, presidente della Montedison, azienda con partecipazione statale, legato alla DC e implicato in affari illeciti. Secondo due appunti del Sismi e del Sisde sarebbe il fondatore della P2.[157] La P2 fu rilevata da Gelli e Ortolani e i suoi aderenti divennero protagonisti in una serie di inchieste giudiziarie e processi, da Sindona in poi, fino a Mani pulite e oltre, in delitti e scandali che sono costati miliardi di lire allo Stato.[158]Siamo negli anni di piombo, con attentati terroristici, scioperi ed inflazione. C'erano timori negli ambienti americani per la forte avanzata del PCI. In questo ambito s'inserisce la P2 per sfruttarne i finanziamenti con il pretesto della campagna anticomunista. Montanelli fonda il Giornale con questo scopo. Indro frequentava il console americano a Milano, Thomas W. Fina, al quale il 12 gennaio 1978 avrebbe confidato di preferire uno scenario cileno piuttosto che un governo comunista.[159] Nel corso della campagna elettorale del 1976 Montanelli impegna il giornale alla raccolta di voti e appoggi a favore della corrente di destra della DC, pubblica i nomi da votare a Milano, fra cui il capolista DC Massimo De Carolis, anche lui iscritto alla P2.[160] La P2 mira al controllo dei principali mezzi di comunicazione attraverso illecite manovre finanziarie e riesce così ad arrivare anche al principale quotidiano italiano il Corriere della sera, con la direzione di Franco Di Bella. Nel suo Diario, Montanelli riporta incontri riguardanti questi retroscena, che ha con Fanfani, Forlani, Andreotti, Berlusconi e con lo stesso Di Bella: "24 settembre 1977. De Carolis m'informa che il vero autore della operazione «Corriere» è un certo Gelli, misterioso personaggio massonico, di Arezzo (Fanfani), che vuole incontrarmi per un accordo fra i due giornali." "Roma, 4 ottobre. Secondo quanto mi era stato raccomandato, dovevo salire direttamente alla camera 219 dell'Excelsior. Ma alla camera 219 non c'era nessuno, e così dovetti chiedere al portiere del signor Gelli. Poi Gelli arrivò, mi condusse furtivamente nel suo appartamento e mi fece un lungo discorso pieno di allusioni, dal quale dovevo comprendere che lui è un pezzo grosso - forse il più grosso - della massoneria (Palazzo Giustiniani), che come tale era stato il vero padrino della operazione Rizzoli, e che in questa operazione potevamo rientrare anche noi. Mi ha detto che quattro ministri dell'attuale governo, otto sottosegretari e centoquaranta parlamentari dipendono da lui". "Roma, 3 ottobre 1977, mi telefona Di Bella. Mi dice che ha già ricevuto l'investitura da Zaccagnini, ma che vuole l'accordo con noi. Bernabei che smentisce in pieno Fanfani rivendicando la paternità dell'operazione «Corriere». Anche lui sostiene la necessità di un accordo fra i due giornali (al Corriere l'informazione, a noi l'opinione) nel quadro di una strategia editoriale di vasto raggio". "Milano, 16 ottobre. Da Berlusconi, a cena con Di Bella. Mi dice che la sua direzione è sicura." [161] Gelli scrisse nel suo libro di avergli fatto avere un finanziamento di 300 milioni dal Banco Ambrosiano a "titolo gratuito". [162] Querelato da Montanelli, fu condannato per diffamazione dal Tribunale di Monza. Montanelli afferma che ottenne "un prestito" dal presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi, iscritto alla P2, socio di Sindona e autore di furti ai danni delle banche e società dello Stato: «È vero che in seguito la società editrice ottenne un finanziamento dal Banco Ambrosiano, ma non mi occorrevano certo gli auspici di Gelli: io ero amico di Calvi, l'avevo conosciuto durante la guerra di Russia nel '42.» [163] Le difficoltà finanziarie del giornale terminano con l'intervento di un altro affiliato alla P2: Berlusconi, il quale entrerà in politica nel 1994, sempre con la motivazione anticomunista. Con la scoperta e la pubblicazione dell'elenco degli iscritti alla loggia viene alla luce che alcuni di loro, oltre a Berlusconi, sono nel suo giornale e altri, come Roberto Gervaso, a lui vicini.[164] Rompe i rapporti con Gervaso ma non con Berlusconi, con il quale continua a collaborare fino al 1994 malgrado le prime inchieste portino alla luce i suoi legami affaristici. Minimizza il ruolo di Gelli parlando solo del suo presunto golpe, a cui non crede, definendolo un «pataccaro», e la P2 una delle tante "cricche" italiane, non approfondendo la materia, neanche sul suo giornale, dell'azione politica svolta dalla loggia: «Per istinto, e per come avevo visto e conosciuto Gelli, io sono convinto che [la Loggia P2] era una cricca di affaristi e basta. Era una cricca di affaristi condotta da un uomo che, evidentemente, come intrallazzatore doveva essere geniale. Era un pataccaro, indiscutibilmente era un pataccaro, ma che a tutto pensava fuorché a un golpe. Non ci pensava nemmeno. Lui procurava affari e soprattutto fomentava carriere. Lui aveva capito qual è la struttura del potere in Italia, sempre, non soltanto allora, sempre: è una struttura mafiosa. Bisogna far parte di una cricca, di una conventicola in cui ognuno aiuta l'altro, e questo era la P2. […] Ma che interesse poteva avere Gelli a rovesciare un sistema che gli consentiva di influire sino a quel punto? Quale interesse poteva avere? E poi, Gelli era un farabolano ma non doveva essere del tutto sprovveduto, doveva sapere che l'Italia non è terra da golpe. Ma chi lo fa il golpe? E anche se qualcuno lo fa, come fa a resistere? Che cos'ha dalla sua per fare il golpe? Non ho mai creduto al golpismo di Gelli."[165] Gelli stesso approfitterà di questa ambiguità nel difendersi in una lettera a Tina Anselmi, presidente della Commissione P2: "A quali risultati ha portato il lavoro di ben tre anni di questa Commissione. Nessuna certezza, ... un testo … che un giornalista illustre come Indro Montanelli, che con me non è mai stato tenero, ha definito «cicaleccio di portineria», aggiungendo che «nulla si può escludere, nemmeno che Tina Anselmi sia una calunniatrice».[166]Schierandosi con i personaggi citati incontra l'opposizione di uomini politici a lui vicini come Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini. Rompe inoltre la lunga amicizia con un suo maestro: Augusto Guerriero[167]Le cause del dissidio sono due: una è il compromesso storico, ovvero l'accordo fra DC e PCI. Con l'avvento di Berlinguer alla segreteria, il partito si era distaccato dall'Urss e aveva preso posizione contro il terrorismo e contro gli affari illeciti dei partiti. La Malfa e Spadolini erano per un avvicinamento al PCI, e Guerriero, benché fosse stato sempre anticomunista, riteneva che la collaborazione del nuovo PCI avrebbe aiutato l'Italia a uscire dalla crisi drammatica che stava attraversando. L'altra causa di dissidio era morale: i suoi amici rifiutavano di "turarsi il naso". La Malfa, unico nel governo, si era opposto al salvataggio della banca di Sindona [168] e Spadolini aveva sciolto la P2. Guerriero aveva denunciato sulla rivista Epoca Sindona e i suoi complici.[169]
«L'idea che ministri, parlamentari, generali, ammiragli, ambasciatori, prefetti, magistrati, professionisti, imprenditori, giornalisti, tutta gente di grido, abbiano preso sul serio un personaggio come Gelli e accettato di fargli da valletti nella P2, mi sgomenta. Se questo è il Gotha italiano, figuriamoci il resto. Secondo me meritano davvero la galera. Non per associazione a delinquere, come dicono gl'inquirenti, ma per baggianeria e sconsideratezza[170].» |
Nel corso degli anni Montanelli lanciò una campagna giornalistica contro la candidatura di Venezia per l'Expo 2000 (voluta dal socialista Gianni De Michelis e ritirata nel 1990), appoggiò i referendum abrogativi a favore della preferenza unica e del sistema maggioritario (prendendo a modello il sistema elettorale francese a doppio turno) e nel 1991 sostenne la partecipazione dell'Italia nella guerra del Golfo per la liberazione del Kuwait (invaso dall'Iraq), promuovendo un appello a favore dei militari italiani presenti nel Golfo e criticando i pacifisti[171].
In occasione delle elezioni politiche italiane del 1992 (le prime dalla fine della guerra fredda) invitò i lettori del Giornale a votare una rosa di nomi favorevoli alle riforme istituzionali: furono individuate 457 persone tra vari partiti[172][173], ritenendo tuttavia votabili soltanto il PRI (quasi tutto filo-referendario), parte del PLI e la corrente DC vicina a Mario Segni (risulteranno eletti oltre 150 «pattisti»). Pur essendo critico nei confronti delle Leghe riconobbe che erano «un fenomeno di reazione a una provocazione» dovuto alla partitocrazia e alla politica nazionale che amministrava malissimo i soldi pubblici[174] e al ballottaggio delle elezioni comunali del 1993 invitò gli elettori milanesi a votare per Marco Formentini, candidato leghista considerato meno lontano dai moderati rispetto a Nando dalla Chiesa, sostenuto da una coalizione di sinistra, dando per certa la sconfitta dei candidati centristi al primo turno[175].
Il 2 giugno 1977 Montanelli fu vittima a Milano di un attentato, ordito dalla colonna milanese delle Brigate Rosse. Mentre come ogni mattina, dopo essere uscito dall'Hotel Manin, dove risiedeva[23][176], si stava recando in redazione, venne ferito all'angolo fra via Daniele Manin e piazza Cavour (ove aveva sede il Giornale nuovo, nel cosiddetto Palazzo dei giornali), con una pistola 7,65 munita di silenziatore. L'attentatore gli sparò otto colpi consecutivamente, colpendolo due volte alla gamba destra, una volta di striscio alla gamba sinistra e alla natica, secondo una pratica definita – con un neologismo coniato in quel periodo – «gambizzazione»[177].
Il gruppo brigatista era formato da Lauro Azzolini, Franco Bonisoli e Calogero Diana: fu quest'ultimo a sparare. Gli attentatori, che probabilmente non sapevano che Montanelli portava con sé una pistola, lo avvicinarono di spalle chiamandolo per nome. Mentre il giornalista, fermatosi, stava girandosi per rispondere, Diana gli sparò a distanza ravvicinata. Colpito, Montanelli sentì cedere le gambe, ma decise di non estrarre la pistola. Il suo unico pensiero fu di non lasciarsi cadere a terra: si aggrappò alla cancellata dei Giardini[178] mentre urlava: «Vigliacchi, vigliacchi!» all'indirizzo dell'attentatore e dei complici in fuga; poi si lasciò scivolare a terra. Poco dopo dichiarò ad un soccorritore: «Quei vigliacchi mi hanno fottuto. Li ho visti in faccia, non li conosco, ma credo di poterli riconoscere»[179]. I proiettili trafissero la carne, senza però ledere né ossa né vasi sanguigni[180]. Lauro Azzolini affermò che se Montanelli avesse estratto la sua pistola sarebbe stato sicuramente ucciso[181].
Tutta la stampa italiana diede grande rilievo all'attentato contro Montanelli. Con due significative eccezioni: il Corriere della Sera, diretto da Piero Ottone, e La Stampa, diretta da Arrigo Levi, che arrivarono addirittura a omettere nel titolo di prima pagina il nome di Montanelli, relegandolo al sommario. Il Corriere della Sera titolò: I giornalisti nuovo bersaglio della violenza. Le Brigate rosse rivendicano gli attentati[182]; poi nel suo editoriale, pur esprimendogli una solidarietà senza riserve, avvertì i propri lettori che il collega ferito «rappresenta e difende posizioni nelle quali non ci riconosciamo». Per colmo, sia Arrigo Levi che Piero Ottone faranno poi visita al capezzale di Montanelli, che prenderà nota nei suoi Diari dell'imbarazzante visita dei due, con il consueto sarcasmo:
«La notizia era il mio nome. Abolendolo, hai [Piero Ottone] svuotato la notizia. Ed è strano che lo abbia fatto proprio tu, che della notizia hai sempre predicato la centralità. [...] Più tardi sopraggiunge Arrigo Levi, che dopo consulto telefonico con Ottone, aveva a sua volta evitato, nel titolo, il mio nome. Più accorto, non dice nulla, e io nulla gli rimprovero. Ma da quali ometti è rappresentato questo povero giornalismo italiano![183]» |
Più ironico su la Repubblica fu il vignettista Giorgio Forattini, che raffigurò l'allora suo direttore Eugenio Scalfari nell'atto di puntarsi una pistola contro il piede dopo aver letto la notizia dell'attentato a Montanelli, suggerendo che ne invidiasse la popolarità. Altri quotidiani pubblicarono la notizia in prima pagina (l'Unità riportò la cronaca dell'evento evidenziando la ferma condanna del partito per un atto definito criminale nell'occhiello del titolo)[184].
L'attentato venne rivendicato dalla colonna Walter Alasia delle Brigate Rosse con una telefonata al Corriere d'Informazione (edizione pomeridiana del Corriere della Sera). Secondo la rivendicazione dei terroristi perché «schiavo delle multinazionali». Il giorno prima, con la medesima tecnica, le Brigate Rosse avevano gambizzato a Genova Vittorio Bruno, vicedirettore del Secolo XIX, mentre il giorno successivo all'attentato a Montanelli venne gravemente ferito a Roma Emilio Rossi, a quel tempo direttore del TG1.
Dieci anni dopo Montanelli incontrò i due brigatisti che lo avevano ferito[185] e che si erano dissociati dalla lotta armata[186][187]. Ad un incontro pubblico in cui erano presenti anche gli ex brigatisti disse poi:
«Sono da rispettare perché stanno pagando, con pene che sono state giustamente inflitte, per tutto il male che hanno fatto. Pagano e non hanno però tradito i loro compagni. Oggi rifiutano il loro passato e vogliono reinserirsi. [...] Sono stati bravi, mi hanno sparato quattro colpi senza uccidermi o azzopparmi, e non è facile. Ora la guerra è finita e tra vecchi nemici si usa brindare. Però se mi avessero ucciso il padre o il figlio non sarei certo qui, ma loro stanno pagando o hanno pagato. Prima o poi riusciranno a venir fuori e quindi hanno diritto al perdono. Non amo i pentiti, ma stimo Renato Curcio, anche se siamo su posizioni opposte. Non ha mai tradito i suoi compagni e non ha ammazzato nessuno. Non capisco perché stia ancora dentro. [...] Il mio conto con loro è chiuso. Li rispetto perché oggi rifiutano il loro passato[188].» |
Montanelli espresse stima, oltre che per l'ex capo brigatista, anche per il bandito Graziano Mesina[189], mentre definì l'ex leader di Autonomia Operaia Toni Negri «un esemplare umano di bassa lega»[190].
Nel 1996, rispondendo a Lauro Azzolini, rievocò il gesto di riconciliazione (avvenuto il 19 marzo 1987), aggiungendo:
«Quando, dieci anni dopo, venni a stringervi la mano, il gesto fu naturalmente equivocato. Non potendo attribuirlo alla paura, visto che voi eravate in galera e che il terrorismo era ormai debellato, molti mi accusarono di avervi stretto la mano per esibizionismo. Non capirono che lo avevo fatto perché ci eravamo combattuti all'ultimo sangue, ma allo stesso modo, cioè di fronte e a viso scoperto. Ecco perché ogni qual volta il romanziere di turno (e Dio sa quanti ce ne sono in questo Paese) si mette a ricamare sulle vostre tresche con la mafia, la camorra, la P2, i servizi segreti, ed insomma con quanto c'è di più sudicio in questo sudicio Paese, mi viene da ridere, ma anche un po' da indignarmi perché questo significava non avere, del terrorismo, capito nulla. Il terrorismo era la pistola; la malavita e il sudiciume sono l'Aids. Bene, caro Azzolini, sono contento che tu e Bonisoli abbiate ritrovato una certa normalità di vita, dandole un contenuto sociale e solidaristico in perfetta sintonia con le vostre ideologie. State tranquilli: nessuna persona di buon senso potrà mai scambiarvi per dei "pentiti" o dei complici di mafia o di camorra[191].» |
Nel 1977 terminò il finanziamento della Montedison. Montanelli accettò il sostegno di Silvio Berlusconi, all'epoca costruttore edile, che rilevò il 12% delle quote del Giornale per poi diventare socio di maggioranza nel 1979 con il 37,5%[192]. Secondo Felice Froio, Montanelli, sottoscrivendo il contratto con Berlusconi, gli avrebbe detto: «Tu sei il proprietario, io sono il padrone almeno fino a che rimango direttore. [...] Io veramente la vocazione del servitore non ce l'ho»[193].
Nel corso degli anni ottanta Berlusconi affidò alla redazione del Giornale i primi notiziari di Italia 1, e schierò Montanelli tra gli opinionisti di punta di Canale 5[192]. Nel 1987, a causa dei debiti e della concorrenza sempre più agguerrita, i giornalisti-azionisti cedettero le loro quote a Berlusconi, che raggiunse la maggioranza assoluta prima di cedere il quotidiano al fratello Paolo nel 1992, per via della legge Mammì approvata due anni prima[192].
Il loro sodalizio durò senza significativi contrasti fino al 1994. Tanto che Montanelli, in un'intervista concessa al giornalista Giorgio Ferrari agli inizi degli anni novanta, disse: «La gente forse non ci crede quando dico che Silvio Berlusconi è il miglior padrone che potessi desiderare di avere. Sa perché? Perché ha capito immediatamente che non poteva darmi ordini. E non l'ha fatto. Di lui posso dire che è un misto di genialità e di coraggio, con un pizzico di "bausceria milanese". Uno che scommette su cose sulle quali tu non punteresti una lira»[194].
Secondo quanto racconta Marco Travaglio, in una delle visite di Montanelli presso la villa di Arcore, Berlusconi gli fece visitare il mausoleo funebre e, al termine della visita, giunti presso la sala dei loculi, gli avrebbe offerto un posto vicino a Cesare Previti, Marcello Dell'Utri e se stesso. Ma Montanelli declinò l'offerta, rispondendo ironicamente con l'incipit di una preghiera liturgica: Domine, non sum dignus («O Signore, non sono degno»)[195]. Dal punto di vista politico il sodalizio cominciò a scricchiolare durante il 1993, dal momento che Montanelli appoggiò il movimento referendario di Mario Segni come l'unica forza moderata e liberaldemocratica in grado di favorire il cambiamento, mentre Berlusconi era favorevole a una coalizione formata dal vecchio pentapartito, dalla Lega Nord e dal MSI[192]. Tra il dicembre 1993 e il gennaio 1994 arrivarono i primi attacchi personali da parte di Vittorio Sgarbi, che lo definì «un fascista» ripescando alcuni articoli scritti all'età di vent'anni, ed Emilio Fede, che il giorno dell'Epifania ne chiese in diretta le dimissioni durante il TG4[192].
Secondo la versione raccontata da Montanelli nel gennaio 1994, due settimane prima della «discesa in campo» di Berlusconi, questi si presentò all'ufficio amministrativo del Giornale a sua insaputa, dicendo ai redattori che se volevano stipendi più alti e più mezzi tecnologici dovevano appoggiare i suoi interessi politici[196]. Successivamente arrivarono 35 lettere di dimissioni[196] (poi diventate 55)[192]: Montanelli, che gli aveva sconsigliato di entrare in politica, decise di non seguirlo e l'11 gennaio si dimise dalla direzione del quotidiano[197], che passò sotto la guida di Vittorio Feltri.
Da un'intervista audiovisiva rilasciata ad Alain Elkann si evince che la loro separazione fu presa di comune accordo. Nell'intervista con Elkann, Montanelli spiega meglio la dinamica della sua uscita dal Giornale. Egli, riferendosi a Berlusconi, racconta: «Gli dissi: "Io non mi sento di seguirti in questa avventura, quindi noi dobbiamo separarci". [...] Fu una separazione consensuale fra me e Berlusconi. Il patto su cui si reggeva la nostra convivenza, che era stato scrupolosamente osservato da tutt'e due le parti (ossia "Berlusconi è il proprietario del Giornale, Montanelli ne è il padrone"), era venuto meno»[198]. Montanelli ricostruisce quindi il dialogo che avvenne con Berlusconi, asserendo che non volle mettersi al suo servizio, sia perché non si era mai messo a servizio di nessuno e non riteneva opportuno cominciare con Berlusconi, sia perché riteneva che Berlusconi non potesse avere successo in politica.
Altri invece, citando lo stesso Montanelli, parlano di un aspro conflitto tra lui e Berlusconi e non convengono con coloro che sostengono la tesi che l'abbandono di Montanelli fosse in comune accordo con la proprietà[192]. Nella sua testimonianza autobiografica pubblicata postuma nel 2002, in ogni caso, il giornalista dichiarò che ciò che aveva scritto nel suo fondo di addio, ovvero che se n'era andato di sua iniziativa e non perché costretto, era «la verità»[199].
Il 10 gennaio 1994, Montanelli in una lettera aperta a Silvio Berlusconi scrisse:
«Ho creduto di metterti in guardia da quello che mi sembra un grosso azzardo [la discesa in campo]. A questa mia franchezza hai risposto venendo in assemblea di redazione a proporre un rilancio del Giornale purché adottasse una linea politica diversa per sostanza e per forma da quella seguita da me: e con questo hai sbarrato la strada ad ogni possibile intesa.» |
(Federico Orlando, Il sabato andavamo ad Arcore, Bergamo, Larus, 1995, p. 214.) |
Il 12 gennaio scrisse il suo ultimo articolo di fondo sul quotidiano che aveva fondato[200]. Risultò quindi per lui una sorpresa la vittoria del suo ex editore, che attribuì a una combinazione di fortuna e fiuto, e in particolare al fatto che, dopo Mani pulite, l'elettorato desiderava votare qualcosa di nuovo. Nel 1996 Berlusconi invitò Montanelli a cena nella sua villa di Arcore, per riconciliarsi con lui[144]. Montanelli rimase comunque sempre convinto che Berlusconi fosse inadatto al ruolo di politico, per i suoi atteggiamenti prima ancora che per il suo conflitto di interessi[144], e tra il 2000 e il 2001 ricominciò ad attaccarlo, preoccupato dall'instaurazione di un «regime», come fece durante il suo primo governo[192].
Non ritenendo di poter accettare la direzione del Corriere della Sera (che non avrebbe assunto anche gli altri redattori del Giornale) offertagli da Paolo Mieli e Gianni Agnelli[56], Montanelli decise di fondare una nuova testata, la Voce, il cui nome fu scelto in omaggio a Giuseppe Prezzolini[201]. L'idea iniziale era di farne un settimanale[202], sul modello de Il Mondo di Mario Pannunzio: di conseguenza la progettazione della «terza pagina», la sezione culturale, risultò particolarmente curata.
A far decidere Montanelli di pubblicare un quotidiano fu il numero di giornalisti alle sue dipendenze: a seguire il loro direttore nel passaggio dal Giornale alla Voce vi furono infatti 55 cronisti su 77[201]. Tra questi, Beppe Severgnini, Marco Travaglio, Mario Cervi, Giancarlo Mazzuca, Federico Orlando, Peter Gomez, Donata Righetti, Luigi Offeddu, Alberto Mazzuca, Tiziana Abate. La nuova impresa tuttavia non ebbe vita lunga non riuscendo ad ottenere nel tempo un sufficiente volume di vendite: nonostante un esordio di 500.000 copie[144][203], le vendite scesero presto sotto le 100.000 unità. L'ultimo numero fu pubblicato mercoledì 12 aprile 1995.
Secondo Montanelli, una causa dell'insuccesso fu l'avere sovrastimato il numero di potenziali acquirenti del quotidiano, pensato per un pubblico di destra liberale, non soddisfatto della svolta populistica impressa da Berlusconi[201]. Un secondo errore fu la grafica troppo anticonvenzionale della pubblicazione, in particolare il fotomontaggio satirico e caricaturale che caratterizzava la prima pagina: la troppa aggressività delle immagini avrebbe contribuito ad allontanare i possibili acquirenti, abituati a uno stile più misurato[144]. In retrospettiva, tuttavia, l'avveniristica impostazione grafica, ideata dall'art director Vittorio Corona, avrebbe influenzato lo stile giornalistico degli anni successivi[204].
Dopo la chiusura della Voce, Montanelli tornò a lavorare per il Corriere della Sera, curando una seguitissima pagina di colloquio con i lettori, La Stanza di Montanelli. Le lettere e le risposte più significative furono in seguito raccolte nei due libri antologici (Le Stanze e Le nuove Stanze) e, in parte, anche nell'epistolario Nella mia lunga e tormentata esistenza. Lettere da una vita.
Nel 1996 sostenne, suscitando polemiche, l'ipotesi dell'illegittimità della condanna dell'ex militare nazista Erich Priebke, uno dei responsabili dell'eccidio delle Fosse Ardeatine (pur avendo due amici tra le vittime) in quanto, secondo Montanelli, Priebke fu costretto a scegliere tra eseguire l'ordine, che veniva dai vertici tedeschi, o morire egli stesso per fucilazione[205][206][207].
Negli ultimi anni Montanelli prese posizione a favore dell'intervento della NATO in Jugoslavia[208][209], definendo Slobodan Milošević «uno dei maggiori responsabili dello sfacelo della Jugoslavia e del suo precipizio nella guerra civile»[210], scrisse di essere contro i matrimoni tra persone dello stesso sesso, sostenendo che «la nostra società è basata [...] sulla famiglia, e la famiglia è per definizione formata da un uomo e da una donna»[211], contro la legalizzazione delle droghe leggere perché portano alle droghe pesanti, e quelle pesanti portano allo sfacelo e alla morte[212] e si dichiarò favorevole all'eutanasia[213]. Fu contrario all'istituzione della giornata della Memoria, spiegando che «le feste comandate non raggiungono mai gli effetti che si propongono, anzi provocano il contrario»[214].
Commentando l'appoggio fornitogli in quel periodo dagli esponenti della sinistra post-comunista in chiave antiberlusconiana, Montanelli dichiarerà:
«Prima mi demonizzavano, ero il mostro, adesso sono il santone... Ma il santone della sinistra [...] Io sono un uomo di destra, io sono un liberal-conservatore... Sono un uomo di destra che non si riconosce nelle forze che oggi si proclamano 'di destra'[215][216].» |
Quando uscì Il libro nero del comunismo espresse dei dubbi sulle reali cifre riportate dagli autori e si disse non sorpreso dal contenuto, poiché non fu rivelato nulla che già non si sapesse[217], così come definì il dossier Mitrokhin (riferito in particolare alla lista di presunti agenti e informatori del KGB in Italia) «una patacca»[218] e «una bufala» per via dei nomi presenti nell'elenco[219], scrivendo:
«Cossutta, per esempio. Ma che bisogno aveva, Cossutta, di parlare con qualche piedipiatti del Kgb, lui che a Mosca parlava con tutti i maggiori esponenti della cosiddetta Nomenklatura, da Suslov a Breznev, dai quali era considerato un loro fiduciario? E cosa c'entrano i giornalisti? Ognuno di noi ha avuto certamente rapporti con agenti dei servizi segreti stranieri, il più delle volte ignorando che lo erano, ma talvolta magari sapendolo. Fa parte del nostro mestiere. E ora mi spieghi una cosa lei: come mai queste liste che non comprendono soltanto nomi italiani, ma anche francesi, inglesi, spagnoli ecc., sono state considerate dappertutto carta straccia meno che in Italia?» |
Nel 2000, rispondendo in una Stanza del Corriere della Sera ad un lettore che gli chiedeva delucidazioni sulla nascita della Repubblica, Montanelli confermerà la propria antica fede monarchica, che lo aveva portato, nel 1946, a votare per i Savoia:
«Sebbene monarchico di vecchia e mai rinnegata fede (continuo a credere che l'Italia, come Nazione, sia finita il 2 giugno del '46), non credo che il continuo rimestìo di quell'avvenimento faccia bene alla nostra salute. La pubblicistica monarchica, che ormai non esiste più, non ha mai smesso di avanzare dubbi sul conteggio dei voti che decisero il cambio dell'Istituzione. Io ho condiviso e tuttora condivido quei dubbi perché di colui che ne fornì le cifre, il ministro degli Interni, Romita, ho una pessima opinione. Però quando, il 5 mattina, il capo del governo De Gasperi, accompagnato da Andreotti, si presentò in Quirinale per comunicare ufficialmente a re Umberto i risultati (che la stampa aveva già pubblicato due giorni prima), dicendosene – ed era sincero – «dolorosamente sorpreso», Umberto si limitò a stringergli affettuosamente la mano e gli chiese soltanto di poter rivolgere un messaggio d'addio agl'italiani[220].» |
Favorevole a un atto di grazia o di indulto verso gli ex terroristi degli anni di piombo, considerò una truffa un gesto analogo per le inchieste di Tangentopoli, poiché «la corruzione è una piaga endemica della nostra società e come tale va endemicamente combattuta»[221], e inutile l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sui magistrati della Procura di Milano[222].
Nel 1998, in un editoriale sul Corriere della Sera, difese Gian Carlo Caselli e gli altri magistrati palermitani accusati da buona parte dell'opinione pubblica di aver indotto al suicidio il giudice Luigi Lombardini, indagato per estorsione nell'ambito del sequestro di Silvia Melis (rapita dall'anonima sequestri l'anno prima), che si uccise dopo un lungo interrogatorio[223]. L'allora procuratore capo di Palermo scrisse una lettera di ringraziamento e Montanelli rispose: «Signor Procuratore, grazie del suo grazie, che forse non merito perché mi sono limitato a parlare da giornalista indipendente. Indipendente da tutto, anche dai pregiudizi e partiti presi. Posso ricambiarlo soltanto con un augurio: che la limpidezza della sua azione trionfi e valga a disperdere o almeno ad alleggerire la cappa di fango che si cerca di gettare sulla Giustizia. Lo auguro a Lei. Ma lo auguro anche, come cittadino, a me stesso»[224]. Successivamente tornò sull'argomento per «scagionare Caselli da qualsiasi responsabilità nel suicidio di Lombardini»[225], scrivendo:
«Dapprincipio, leggendo che Caselli si era presentato alla procura di Cagliari portandosi al seguito cinque colleghi, avevo pensato che anche lui fosse incorso in qualcuna di queste pecche. Ma poi è risultato evidente che di lavoro, in questo caso, ce n'era non per cinque, ma per dieci o quindici toghe, talmente profondo era il pozzo nero in cui dovevano calarsi. Quanto ai metodi intimidatori, essi sono smentiti non dal resoconto stenografico che si può alterare come si vuole, ma dalla registrazione su nastro di tutto l'interrogatorio, su cui non si possono operare né tagli né omissioni. "Lo hanno torchiato per 5 ore!" fu l'indignato grido che si levò dopo il suicidio dell'indagato. Sfido io, con quel po' po' di roba che stava venendo a galla, e che non riguardava soltanto Lombardini, ma tutta la procura di Cagliari con annessi e connessi avvocati, avventurieri, delinquenti e vittime in un inestricabile viluppo di responsabilità e complicità, che disperiamo di vedere mai chiarito[225].» |
In politica interna dichiarò di aver votato per L'Ulivo alle elezioni politiche italiane del 1996[226] e del 2001, temendo che un successo della Casa delle Libertà con margine di voti troppo largo avrebbe potuto portare Berlusconi a ritenersi «un nuovo uomo della provvidenza»[227], mentre votò per il candidato di centrodestra Gabriele Albertini alle elezioni comunali di Milano del 1997[228] e del 2001[229]; si astenne per le elezioni europee del 1999[230] e votò per il centrosinistra alle Regionali del 2000[231]. Scrisse inoltre di voler vedere al Quirinale una donna tra Rita Levi-Montalcini, Emma Bonino, Letizia Moratti e Tullia Zevi (presidente dell'UCEI dal 1983 al 1998)[232].
Molto critico verso la coalizione di centrodestra, Montanelli concesse qualche apertura al percorso di Alleanza Nazionale verso l'area governativa (come fece con il PDS)[233] mentre disprezzò gli ex comunisti o filocomunisti convertiti al liberalismo d'accatto e all'anticomunismo barricadiero, dopo aver tifato per il «sorpasso» sulla DC negli anni settanta, chiamandoli «sedicenti liberaloni» e descrivendo la borghesia italiana come «la più vile di tutto l'Occidente»[234].
Nel 2000, alla morte di Bettino Craxi, criticò severamente la proposta di Massimo D'Alema di offrire come «atto dovuto» i funerali di Stato all'ex segretario socialista, morto latitante in Tunisia, dicendo:
«"Atto dovuto"? Ma dovuto a chi? Anche a un latitante: quale, dal punto di vista legale, era Craxi? Concedere i funerali di Stato a un latitante significa sconfessare la Giustizia che lo ha condannato. [...] Ma può lo Stato sconfessare la propria Giustizia senza sconfessare se stesso? Mi sembra di vivere in un Paese che di senso dello Stato ne ha meno di una tribù del Ghana[235].» |
Altre critiche furono rivolte all'ambiente cattolico (vicino a Comunione e Liberazione) riunito al Meeting per l'amicizia fra i popoli:
«A Rimini, cioè in casa propria (ma anche nostra, almeno per il momento), questi signorini non hanno fatto che fischiare tutto ciò che è italiano, acclamare nel nuovo beato Pio IX il Papa-Re che pretendeva d'impedire il processo di unificazione nazionale ed esaltare come i veri eroi del Risorgimento i Borboni e i briganti del Cardinale Ruffo. A lei, tutto questo va bene? A me, dà il vomito[236].» |
In politica estera si disse contrario all'allargamento del Patto Atlantico in Europa orientale[237] e a un secondo Piano Marshall a favore dei Balcani, della Russia e del Medio Oriente[238], mentre nel 2000 scrisse che, pur essendo un simpatizzante repubblicano, se avesse potuto avrebbe votato Al Gore (candidato democratico) alle presidenziali americane, sostenendo che aveva più esperienza sia in politica interna che in politica estera rispetto a George W. Bush, considerato poco più che una comparsa[239].
Il 22 luglio 2001, Montanelli morì all'età di 92 anni a Milano nella clinica La Madonnina (lo stesso luogo dove 29 anni prima era scomparsa un'altra figura storica del Corriere, l'amico Dino Buzzati): operato agli inizi del mese per un tumore all'intestino[240], morì a causa di complicazioni seguite a un'infezione delle vie urinarie[241]. Il giorno seguente il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, pubblicò in prima pagina il necrologio di Montanelli, scritto da lui stesso pochi giorni prima di morire:
«Mercoledì 18 luglio 2001, ore 1:40 del mattino. Giunto al termine della sua lunga e tormentata esistenza – Indro Montanelli – giornalista – Fucecchio 1909, Milano 2001 – prende congedo dai suoi lettori ringraziandoli dell'affetto e della fedeltà con cui lo hanno seguito. Le sue cremate ceneri siano raccolte in un'urna fissata alla base, ma non murata, sopra il loculo di sua madre Maddalena nella modesta cappella di Fucecchio. Non sono gradite né cerimonie religiose, né commemorazioni civili.» |
(Corriere della Sera, 23 luglio 2001.) |
La compagna dei suoi ultimi anni, Marisa Rivolta[242], gli fu vicino fino alla fine. Migliaia di persone sfilarono nella camera ardente per rendergli omaggio[243]. Le sue ultime volontà riguardo alla cremazione ed al posizionamento delle ceneri al cimitero di Fucecchio vennero pienamente rispettate.
«Chi di voi vorrà fare il giornalista, si ricordi di scegliere il proprio padrone: il lettore.» |
(Indro Montanelli[244].) |
Fra i vari riconoscimenti tributati a Montanelli, spicca la nomina a senatore a vita offertagli nel 1991 da Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica. Il giornalista non accettò però la proposta, a garanzia della sua completa indipendenza[245]. Dichiarò:
«Non è stato un gesto di esibizionismo, ma un modo concreto per dire quello che penso: il giornalista deve tenere il potere a una distanza di sicurezza[246].» |
E ancora:
«Purtroppo, il mio credo è un modello di giornalista assolutamente indipendente che mi impedisce di accettare l'incarico[246].» |
Montanelli fu autore e uomo di cultura riconosciuto e premiato anche all'estero: nel 1992 fu il primo italiano ad essere nominato Commendatore di I classe dell'Ordine del Leone di Finlandia (Suomen Leijonan I lk:n komentaja)[247][248][249], nel 1994 ricevette l'International Editor of the Year Award della World Press Review[250], e nel 1996 ebbe il Premio Principessa delle Asturie, attribuitogli con la seguente motivazione[251]:
«Il dottor Indro Montanelli è stato ed è per i professionisti della comunicazione di tutto il mondo un esempio e uno specchio permanente di etica professionale, indipendenza di giudizio, difesa della libertà e servizio alla convivenza democratica per mezzo della comunicazione. Alla sua straordinaria biografica giornalistica e al suo sforzo per difendere la pluralità dei media - che lo ha portato a fondare varie testate - si aggiunge inoltre un'ampia opera di divulgazione storica, caratterizzata da rigore e originalità.» |
Nel 1985 ottenne il Riconoscimento Gianni Granzotto.[252]
Nel 2000 fu insignito negli Stati Uniti dell'International Press Institute World Press Freedom Heroes, unico italiano tra 50 personalità scelte tra i più grandi giornalisti del Novecento per aver difeso e salvato la libertà di stampa nella seconda metà del secolo. Interpellato da un lettore sul significato del prestigioso premio «Eroe della libertà di stampa», Montanelli rispose così:
«Posso dirle che nessun riconoscimento poteva lusingarmi più di questo, che mi assegna un posto fra i più grandi giornalisti di questo secolo. Lo considero qualcosa di mezzo fra un Oscar e un Nobel, comunque il coronamento più esaustivo e gratificante di una carriera di oltre settant'anni punteggiata di triboli d'ogni genere, ma rimasta fedele a se stessa, cioè al giornalismo, al di fuori del quale non ho cercato né accettato nulla[253].» |
Fra i personaggi di fama mondiale da lui intervistati, oltre ai già citati Henry Ford e Papa Giovanni XXIII, si possono ricordare Winston Churchill e Charles de Gaulle.
Degna di nota è la cena che Indro Montanelli ebbe nel 1986, in Vaticano, con Papa Giovanni Paolo II:
«La sera che cenai con il Papa [...] cenai praticamente da solo [...]. Per la prima volta, nella mia lunga carriera d'inappetente sempre in imbarazzo per ciò che rifiuta, mi sentivo in colpa d'ingordigia. [...] Quando ci alzammo da tavola, lui che c'era rimasto seduto quasi due ore a veder noi mangiare, mi accompagnò lungo il corridoio. Ma, passando davanti alla cappella, mi toccò il braccio e con qualche esitazione, come avesse paura di apparirmi indiscreto, mi disse: «So che sua madre era una donna molto pia. Vogliamo dire una piccola preghiera per lei?». C'inginocchiammo l'uno accanto all'altro. Ma quando, nel congedarmi, accennai a un inchino, me lo impedì serrandomi il polso in una morsa di ferro, e mi abbracciò accostando due volte la tempia alle mie. Come faceva mio padre, che baci non ne dava[254].» |
Enzo Biagi ricordava il suo legame con il lettore: «Era il suo vero padrone. E quando vedeva lo strapotere di certi personaggi, si è sempre battuto cercando di rappresentare la voce di quelli che non potevano parlare»[255].
Il Comune di Milano ha intitolato al grande giornalista i Giardini Pubblici di Porta Venezia, divenuti Giardini Pubblici Indro Montanelli. All'interno del parco è stata posta una statua dello scultore Vito Tongiani raffigurante Montanelli intento nella stesura di un articolo con la celebre Lettera 22 sulle ginocchia.
La Fondazione Montanelli Bassi ha istituito nel 2001 un premio di scrittura dedicato alla triplice figura di Montanelli, giornalista, storico e narratore, assegnato a cadenza biennale (la prima edizione si tenne nel 2003). Il premio, suddiviso nelle sezioni «Alla carriera» e «Giovani», prende in considerazione gli scritti nel settore del giornalismo, della divulgazione storica e della memorialistica[256].
Nel 2016 la sua vita ha ispirato la docu-fiction televisiva Indro. L'uomo che scriveva sull'acqua, in cui gli attori Roberto Herlitzka e Domenico Diele lo interpretano rispettivamente da vecchio e da giovane[257][258].
Nel 2019, in occasione dei 110 anni dalla sua nascita, esce il documentario Indro Montanelli, un anarchico conservatore di Giovanni Paolo Fontana, con la regia di Nicoletta Nesler, in onda su Rai Storia il 23 aprile[259]. In quell'anno l'arrivo della seconda tappa del Giro d'Italia è proprio a Fucecchio, sua città natale, per rendere omaggio al giornalista che ha sempre avuto un grande legame con la Corsa Rosa, della quale ha seguito numerose edizioni in qualità di inviato.
Nel 1969, durante il programma televisivo L'ora della verità di Gianni Bisiach, Indro Montanelli raccontò della propria esperienza in Abissinia durante la quale aveva comprato e sposato una ragazzina dell'età di 12 anni; venne interrotto dalla domanda di una donna presente nello studio la scrittrice e giornalista Elvira Banotti, che gli chiese come intendesse il proprio rapporto con le donne dal momento che in Europa il matrimonio con una bambina di 12 anni è considerato violenza. Montanelli rispose che «in Abissinia funziona così».[260] La discussione tra i due giornalisti continuò fino alla chiusura della trasmissione.
La pratica del madamato (il matrimonio a cui fece riferimento Montanelli nell'intervista) era una relazione temporanea more uxorio di cittadini italiani con donne locali, spesso bambine tra gli 8 e i 12 anni, nelle allora colonie italiane.
Riguardo alla piccola Destà, comprata a 12 anni, Montanelli affermò: «Faticai molto a superare il suo odore, dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli, e ancor di più a stabilire con lei un rapporto sessuale perché era fin dalla nascita infibulata: il che, oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressoché insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre), la rendeva del tutto insensibile.»[261]
Montanelli fu un grande estimatore e frequentatore del teatro e, in particolare, del teatro di varietà[263]. Da giovane, secondo la testimonianza di Gastone Geron, fece parte per una stagione della compagnia di Nanda Primavera (di cui era innamorato)[264][265]. Dal 1937 al 1965 scrisse una decina di commedie che furono messe in scena da vari teatri di Milano, Roma e Torino:
Nel 1959 collaborò con Federico Zardi e Vittorio Gassman alla stesura dei testi per la trasmissione televisiva Il Mattatore[267].
Del libro di Quinto Navarra - non cameriere, bensì commesso a Palazzo Venezia di Mussolini - il ruolo di ghostwriters spetta a Montanelli e Leo Longanesi: essi raccolsero i racconti del Navarra, scrivendo materialmente il volume. Delle memorie del sicario di Giacomo Matteotti, Amerigo Dùmini, a Montanelli va ascritta la trascrizione della versione raccolta nel libro.[268]
Grande ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica italiana | |
— 27 dicembre 1963[271]. |
Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana | |
— Roma, 15 dicembre 1995[272]. |
Croce al merito di guerra | |
«Corrispondente di guerra volontario, assolveva il delicato suo compito con capacità e slancio ammirevoli. Partecipava a varie azioni di guerra con gli elementi più avanzati e con essi entrava nei territori conquistati, dando prova di sereno coraggio e sprezzo del pericolo.» — Struga (Macedonia), Santorino (Mar Egeo), Lettigue; aprile 1941. |
Medaglia commemorativa delle operazioni militari in Africa orientale (ruoli combattenti) | |
Medaglia commemorativa da volontario di guerra delle operazioni militari in Africa Orientale (1935 – 1936) | |
Commendatore di I classe dell'Ordine del Leone di Finlandia | |
— 1992 |
A Indro Montanelli sono intitolate: una via a Roma, una a Cambiago (MI), una piazza a Sesto San Giovanni (MI) e i giardini milanesi dove era solito passeggiare durante le pause di lavoro. Al giornalista è intitolata anche una scuola: il Liceo classico di San Marco in Lamis (FG).
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