Bernardo Provenzano, detto Binnu 'u Tratturi (Bernardo il trattore), per la violenza con cui eliminava i suoi nemici, Zu Binnu (Zio Bernardo) e U Porcu (il maiale) [1] (Corleone, 31 gennaio 1933 – Milano, 13 luglio 2016[2][3]), è stato un mafioso italiano, membro di Cosa nostra, è considerato il capo dell'organizzazione a partire dal 1995 fino al suo arresto, avvenuto l'11 aprile 2006[4] in una masseria a Corleone. Era ricercato da 43 anni, dal 10 settembre 1963[5]. In precedenza era già stato condannato in contumacia a 11 ergastoli e aveva altri processi in corso.
Nato a Corleone da una famiglia di agricoltori, terzo di sette figli[6], venne ben presto mandato a lavorare nei campi come bracciante agricolo insieme al padre Angelo, abbandonando presto la scuola (non finì la seconda elementare). Fu in questo periodo che cominciò una serie di attività illegali, specialmente abigeato e il furto di generi alimentari, e si legò al mafioso Luciano Liggio, che lo affiliò alla cosca mafiosa locale. Nel 1954 venne chiamato per il servizio militare ma venne dichiarato "non idoneo" e quindi riformato[7]. Secondo le indagini dell'epoca dei Carabinieri di Corleone, in quel periodo cominciò a occuparsi di macellazione clandestina di bestiame rubato nei terreni della società armentizia di contrada "Piano di Scala" a Corleone, insieme con Liggio e la sua banda[8]. Il 6 settembre 1958 Provenzano partecipò a un conflitto a fuoco contro i mafiosi avversari Marco Marino, Giovanni Marino e Pietro Maiuri, in cui rimase ferito alla testa e arrestato dai Carabinieri, che lo denunciarono anche per furto di bestiame e formaggio, macellazione clandestina e associazione per delinquere[7][8].
Il 10 settembre 1963 i Carabinieri di Corleone lo denunciarono per l'omicidio del mafioso Francesco Paolo Streva (ex sodale di Michele Navarra) ma anche per associazione per delinquere e porto abusivo di armi[7]: Provenzano si rese allora irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza[9]. Nel 1969 venne assolto in contumacia per insufficienza di prove nel processo svoltosi a Bari per gli omicidi avvenuti a Corleone a partire dal 1958[8].
Secondo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Calderone, Provenzano partecipò alla cosiddetta «strage di viale Lazio» (10 dicembre 1969), che doveva punire il boss Michele Cavataio: durante il conflitto a fuoco, Provenzano rimase ferito alla mano ma riuscì lo stesso a sparare con il suo Moschetto Automatico Beretta Mod. 1938; Cavataio rimase a terra ferito e Provenzano lo stordì con il calcio della Beretta, finendolo a colpi di pistola[10][11][12]. Sempre secondo Calderone, Provenzano «era soprannominato "u' viddanu" e anche "u' tratturi". È stato soprannominato "u' tratturi" da mio fratello con riferimento alle sue capacità omicide e con particolare riferimento alla strage di viale Lazio, nel senso che egli tratturava tutto e da dove passava lui "non cresceva più l'erba"»[13].
Secondo i collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, nel 1974 Riina e Provenzano divennero i reggenti della famiglia di Corleone dopo l'arresto di Liggio, ricevendo anche l'incarico di reggere il relativo "mandamento"[13][14]. Nel marzo 1978 Giuseppe Di Cristina, capo della Famiglia di Riesi, si mise in contatto con i Carabinieri e dichiarò che «Riina Salvatore e Provenzano Bernardo, soprannominati per la loro ferocia "le belve", sono gli elementi più pericolosi di cui dispone Luciano Liggio. Essi, responsabili ciascuno di non meno di quaranta omicidi, sono stati gli assassini del vice pretore onorario di Prizzi» ed erano anche responsabili «su commissione dello stesso Liggio, dell'assassinio del tenente colonnello Giuseppe Russo»[13]; in particolare, Di Cristina dichiarò che Provenzano «era stato notato in Bagheria a bordo di un'autovettura Mercedes color bianco chiaro alla cui guida si trovava il figlio minore di Brusca Bernardo da San Giuseppe Jato»[13].
Secondo le indagini dell'epoca dei Carabinieri di Partinico, Provenzano trascorreva la sua latitanza prevalentemente nella zona di Bagheria ed effettuava ingenti investimenti in società immobiliari, attraverso prestanome, per riciclare il denaro sporco; sempre secondo le indagini, le società immobiliari restarono in intensi rapporti economici con la ICRE, una fabbrica di metalli di proprietà di Leonardo Greco (indicato dal collaboratore di giustizia Totuccio Contorno come il capo della Famiglia di Bagheria)[13].
Nel 1981 Provenzano e Riina scatenarono la cosiddetta seconda guerra di mafia, con cui eliminarono i boss rivali e insediarono una nuova "Commissione", composta soltanto da capimandamento a loro fedeli[13][15]; durante le riunioni della "Commissione", Provenzano partecipò alle decisioni e all'organizzazione di numerosi omicidi come esponente influente del mandamento di Corleone[15][16] e protesse più volte con l'intimidazione la carriera politica di Vito Ciancimino, principale referente politico dei corleonesi[17][18]: infatti negli anni successivi il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè dichiarerà che Riina e Provenzano «non si alzavano da una riunione se non quando erano d'accordo»[15].
Nel 1993, dopo l'arresto di Riina, Provenzano fu il paciere tra la fazione favorevole alla continuazione delle stragi contro lo Stato (Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro) e l'altra contraria (Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Matteo Motisi, Benedetto Spera, Antonino Giuffrè, Pietro Aglieri)[19]: secondo il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori, Provenzano riuscì a porre la condizione che gli attentati avvenissero fuori dalla Sicilia, in "continente", mentre l'altro collaboratore Salvatore Cancemi dichiarò che, durante un incontro, lo stesso Provenzano gli disse che "tutto andava avanti" riguardo alla realizzazione degli attentati dinamitardi a Roma, Firenze e Milano, che provocarono numerose vittime e danni al patrimonio artistico italiano[19][20].
Nel 1993 in una riunione a Villabate, si decise che sia Bernardo Provenzano che Leoluca Bagarella dovessero reggere insieme il mandamento di Corleone.[21] Dopo l'arresto di Leoluca Bagarella nel '95, Provenzano ha campo libero, iniziando così un nuovo corso in Cosa Nostra. Lui propose a Giovanni Brusca di prendere il comando sui corleonesi, ed in cambio ricevette l'investitura a capo dei capi di cosa nostra, in modo così da poter avviare la cosiddetta "strategia della sommersione" che mirava a rendere Cosa nostra invisibile dopo gli attentati del 1992-93, limitando al massimo gli eccidi per non destare troppo l'attenzione delle autorità al fine di tornare a sviluppare gli affari: tale strategia venne decisa nel corso di alcuni incontri a cui parteciparono lo stesso Provenzano insieme con i boss Benedetto Spera, Nino Giuffrè, Tommaso Cannella e il geometra Pino Lipari, il quale non era ritualmente “punciutu” ma poteva partecipare agli incontri perché era il prestanome più fidato di Provenzano.[15]
Il 22 luglio 1993 Salvatore Cancemi, reggente del "mandamento" di Porta Nuova, si consegnò spontaneamente ai Carabinieri e decise di collaborare con la giustizia, dichiarando che la mattina successiva avrebbe dovuto incontrarsi con il latitante Pietro Aglieri (capo del "mandamento" di Santa Maria di Gesù), per poi raggiungere Provenzano in una località segreta, offrendosi di aiutarli a organizzare una trappola; l'informazione però venne considerata non veritiera dai Carabinieri, i quali erano convinti che Provenzano fosse morto poiché dopo un decennio la moglie e i figli erano tornati a vivere e a lavorare a Corleone, decidendo quindi di non sfruttare l'occasione[13].
Le indagini che portarono all'arresto di Provenzano si incentrarono sull'intercettazione dei "pizzini", i biglietti con cui comunicava con la compagna e i figli, il nipote Carmelo Gariffo e con il resto del clan. Dopo l'intercettazione di questi pizzini e alcuni pacchi contenenti la spesa e la biancheria, movimentati da alcuni staffettisti di fiducia del boss[22], i poliziotti della Squadra mobile di Palermo guidati da Giuseppe Gualtieri e dal dirigente della Squadra Catturandi Renato Cortese riuscirono a identificare il luogo in cui si rifugiava[5][23][24]. Individuato il casolare, gli agenti monitorarono il luogo per dieci giorni attraverso microspie e intercettazioni ambientali, per avere la certezza che all'interno vi fosse proprio Provenzano. L'11 aprile 2006 le forze dell'ordine decisero di eseguire il blitz e l'arresto, a cui Provenzano reagì senza opporre resistenza, limitandosi a chiedere che gli venisse fornito l'occorrente per le iniezioni che doveva effettuare in seguito all'operazione alla prostata[25]. Il boss confermò la propria identità complimentandosi e stringendo la mano agli uomini della scorta e venne portato alla questura di Palermo.
Il questore di Palermo successivamente confermò che per giungere alla cattura le autorità non si erano avvalse né di pentiti né di confidenti[5]. Il casolare (il proprietario del quale venne arrestato) in cui viveva il boss era arredato in maniera spartana, con il letto, un cucinino, il frigo e un bagno, oltre che una stufa e la macchina per scrivere con cui il boss compilava i pizzini[25].
Dopo il blitz, venne portato alla questura di Palermo e poi al supercarcere di Terni, sottoposto al regime carcerario dell'art. 41-bis. Dopo un anno di carcere a Terni, a seguito di alcuni malumori degli agenti di Polizia Penitenziaria che si occupavano della sua detenzione, venne trasferito al carcere di Novara[26]. Dal carcere di Novara tentò più volte di comunicare in codice con l'esterno[27][28]. Il ministero della Giustizia decise allora di aggravare la durezza della condizione detentiva, applicandogli, in aggiunta al regime dell'art. 41-bis, il regime di "sorveglianza speciale" (14-bis) dell'ordinamento penitenziario, con ulteriori restrizioni, come l'isolamento in una cella in cui erano vietate televisione e radio portatile[27].
Il 19 marzo 2011 venne confermata la notizia che Bernardo Provenzano era affetto da un cancro alla vescica. Lo stesso giorno venne annunciato il suo trasferimento dal carcere di Novara a quello di Parma, dove il 9 maggio 2012 l'ex boss tentò il suicidio infilando la testa in una busta di plastica, con l'obiettivo di soffocarsi. Il tentativo venne sventato da un agente di polizia penitenziaria.[29][30]
Il 24 luglio 2012 la Procura di Palermo, sotto Antonio Ingroia e in riferimento all'indagine sulla trattativa Stato-mafia, chiese il rinvio a giudizio di Provenzano e altri undici indagati accusati di concorso esterno in associazione di tipo mafioso e "violenza o minaccia a corpo politico dello Stato". Gli altri imputati erano i politici Calogero Mannino, Marcello Dell'Utri, gli ufficiali Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, i boss Giovanni Brusca, Salvatore Riina, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, il collaboratore di giustizia Massimo Ciancimino (accusato anche di calunnia) e l'ex ministro Nicola Mancino ("falsa testimonianza").[31]
Il 23 maggio 2013 la trasmissione televisiva Servizio pubblico mandò in onda un video che ritrae Provenzano nel carcere di Parma durante un colloquio con la compagna e il figlio minore, il 15 dicembre 2012. Nel video l'ex boss appare fisicamente irriconoscibile, affaticato e mentalmente confuso, tanto da non riuscire a tenere in mano correttamente la cornetta del citofono per parlare con il figlio e nemmeno a spiegargli con chiarezza l'origine di un'evidente contusione al capo: prima dichiara di essere stato vittima di percosse, poi di essere caduto accidentalmente[32]. Il 26 luglio dell'anno seguente la procura di Palermo diede il via libera alla revoca del regime dell'art. 41-bis a cui Provenzano era sottoposto, motivandola con le condizioni mediche.[33]
A causa dell'aggravarsi delle stesse, il 9 aprile 2014 venne ricoverato all'Ospedale San Paolo di Milano, proveniente dal centro clinico degli istituti penitenziari di Parma. Nell'estate 2015 la Cassazione riconfermò il regime di 41-bis presso la camera di massima sicurezza dell'ospedale milanese, respingendo l'istanza dei legali di Provenzano di spostarlo nel reparto riservato ai detenuti ordinari, in regime di detenzione domiciliare. Motivazione di questa decisione fu la tutela del diritto alla salute del detenuto, ritenendo la Corte Suprema che l'esposizione alla promiscuità dell'altro reparto (peraltro non attrezzato ad assicuragli un'assistenza sanitaria efficace come quella di cui godeva nella camera di massima sicurezza) l'avrebbe messo a "rischio sopravvivenza".[34]
Morì all'ospedale San Paolo di Milano il 13 luglio 2016, all'età di 83 anni.[35][36][37] Il questore di Palermo dispose che "per ragioni di ordine pubblico" venissero vietati i funerali (esequie in chiesa e corteo funebre) e qualsiasi altra cerimonia in forma pubblica, concedendo ai familiari di accompagnare la salma al cimitero di Corleone soltanto in forma privata.[38] Compagna e figli optarono per farlo cremare a Milano, per poi traslare personalmente l'urna cineraria al cimitero di Corleone, dove il 18 luglio venne tumulata nella tomba di famiglia.[39]
Il 26 ottobre 2018 la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato la Repubblica Italiana per aver rinnovato il 41-bis a Bernardo Provenzano in punto di morte, violando, secondo i giudici, il diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti.[40][41][42]
Il 31 ottobre 1995 il boss Luigi Ilardo (reggente mafioso della provincia di Caltanissetta in sostituzione del cugino detenuto Giuseppe "Piddu" Madonia) divenne confidente del colonnello Michele Riccio del ROS e gli rivelò che avrebbe incontrato Provenzano in un casolare nei pressi di Mezzojuso; Riccio allertò il colonnello Mario Mori ma non gli furono forniti uomini e mezzi adeguati per intervenire, cosicché non riuscì a localizzare con esattezza il casolare indicato da Ilardo. Successivamente, il 10 maggio 1996, poco dopo aver cominciato la sua collaborazione con la giustizia, Ilardo venne ucciso[55]. Riccio accusò Mori e i suoi superiori di aver trattato la faccenda con superficialità, dando inizio a varie inchieste giudiziarie che ancora non hanno chiarito la vicenda[55].
Nel novembre 1998 gli agenti del ROS dei Carabinieri condussero l'indagine denominata "Grande Oriente", che era partita dalle confidenze rese da Ilardo e portò all'arresto di 47 persone, accusate di attività illecite e di aver favorito la latitanza di Provenzano; tra gli arrestati figurarono anche Simone Castello e l'imprenditore bagherese Vincenzo Giammanco, accusato di essere prestanome di Provenzano nella gestione dell'impresa edile "Italcostruzioni SpA"[56][57][58].
Nel novembre 2003 venne arrestato l'imprenditore Michele Aiello, accusato di essere il prestanome di fiducia di Provenzano[59]: infatti, secondo il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, Provenzano aveva investito denaro sporco nella clinica Villa Santa Teresa, centro oncologico all'avanguardia a Bagheria di proprietà di Aiello[60][61][62]. Per queste ragioni, nel 2011 Aiello verrà condannato in via definitiva a quindici anni e mezzo di carcere per associazione di tipo mafioso, corruzione e accesso abusivo alla rete informatica della Procura[63][64].
Nel gennaio 2005 la DDA di Palermo coordinò l'indagine "Grande mandamento", condotta dagli agenti del Servizio Centrale Operativo e del ROS dei Carabinieri, che portò all'arresto di 46 persone nella provincia di Palermo, accusate di aver favorito la latitanza di Provenzano e di aver gestito il recapito dei pizzini destinati al latitante[65]; l'indagine rivelò anche che nel 2003 alcuni mafiosi di Villabate avevano aiutato Provenzano a farsi ricoverare in una clinica di Marsiglia per un'operazione chirurgica alla prostata,[66] fornendogli documenti falsi per il viaggio e il ricovero[67]. Uno degli arrestati, Mario Cusimano (ex imprenditore di Villabate), cominciò a collaborare con la giustizia e rivelò agli inquirenti che la carta d'identità usata da Provenzano per andare a Marsiglia era stata timbrata da Francesco Campanella, ex presidente del consiglio comunale di Villabate[68]: nel settembre 2005 anche Campanella cominciò a collaborare con la giustizia e confermò di essere stato lui a timbrare il documento[69][70].
Nel 2006 si verificò un tentativo di depistaggio: il 31 marzo 2006 (undici giorni prima dell'arresto) il legale del boss latitante annunciò la morte del suo assistito[71], subito smentita dalla DIA di Palermo[9].
Nel 1984 venne emesso un mandato di cattura firmato da Giovanni Falcone nei confronti di Giuseppe Provenzano, commercialista e docente di Economia e commercio presso l'Università degli Studi di Palermo, accusato di avere collaborato per anni all'amministrazione dei beni e del denaro della signora Saveria Benedetta Palazzolo, di professione camiciaia e nullatenente, compagna di Bernardo Provenzano, per somme di denaro che si aggirano nell'ordine di diversi miliardi di lire. Dopo meno di una settimana lo stesso Giovanni Falcone lo scagionerà e ordinerà il suo rilascio in quanto estraneo ai fatti a lui contestati[72].
La sentenza di proscioglimento del giudice Giuseppe Di Lello, appartenente al pool antimafia, così recita al proposito:
«Emerge chiaramente che l'imputato era entrato in contatto con la Palazzolo attraverso il padre e che quest'ultimo doveva essere ben consapevole della provenienza illecita del denaro della Palazzolo, ovvero di Bernardo Provenzano [...] Giuseppe Provenzano è da ritenersi una sorta di consigliere della famiglia dei corleonesi [...] ma, non essendoci prove sufficienti della conoscenza da parte del Provenzano, della illiceità delle somme, si reputa conforme a giustizia prosciogliere l'imputato.» |
(Tribunale di Palermo, Ufficio istruzione, sentenza ordinanza contro Cattaneo Renzo + 23, 23 novembre 1989) |
Nel 1996 Giuseppe Provenzano venne eletto Presidente della Regione siciliana e, lo stesso anno, venne nuovamente accusato di avere avuto legami con Bernardo Provenzano dal collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, dichiarazioni che però non produssero conseguenze giudiziarie[72].
Nel 2015 divenne definitiva la condanna a dieci anni e otto mesi di carcere per associazione mafiosa nei confronti di Giovanni Mercadante, medico radiologo e deputato regionale di FI, accusato di avere assistito Bernardo Provenzano e la compagna Saveria Benedetta Palazzolo nelle cure mediche e, in cambio, avrebbe ottenuto i voti e gli appoggi elettorali di Cosa Nostra[73][74].
Bernardo Provenzano è stato sentimentalmente legato a Saveria Benedetta Palazzolo, con cui non ha mai contratto matrimonio, ma ha convissuto durante gran parte della propria latitanza. Saveria Benedetta Palazzolo fece da prestanome a Provenzano in numerose società immobiliari e nel 1983 riuscì a sfuggire a un tentativo d'arresto da parte della polizia, rendendosi irreperibile e condividendo la latitanza con il compagno[75].
La coppia ha avuto due figli:
La signora Palazzolo e i figli hanno vissuto in latitanza fino al 1992; poi, la primavera di quell'anno, hanno fatto improvvisamente ritorno a Corleone[76]. Tra il 2000 e il 2009 il figlio Angelo[77] è stato più di una volta sotto inchiesta per mafia, ma tutte si sono concluse senza alcuno sviluppo giudiziario[78].
Il figlio Francesco Paolo non ha seguito le orme criminali del padre: nel 2005, a 23 anni, si è infatti laureato in Lingue e culture moderne all'Università degli Studi di Palermo[79], per poi ottenere l'assegnazione di una borsa di studio erogata dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca per la promozione della nostra cultura all'estero, che gli ha valso un posto come assistente di lingua italiana in un prestigioso liceo tedesco[75].
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