«Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili.» |
(Rosario Livatino) |
Beato Rosario Angelo Livatino | |
---|---|
Rosario Livatino nel 1985 | |
Martire | |
Nascita | 3 ottobre 1952 |
Morte | 21 settembre 1990 ad Agrigento (37 anni) |
Venerato da | Chiesa cattolica |
Beatificazione | 9 maggio 2021 dal cardinale Marcello Semeraro |
Ricorrenza | 29 ottobre |
Rosario Angelo Livatino (Canicattì, 3 ottobre 1952 – Agrigento, 21 settembre 1990) è stato un magistrato italiano, assassinato dalla Stidda su una strada provinciale ad Agrigento.
È venerato come beato e martire dalla Chiesa cattolica.
Del delitto fu testimone oculare Pietro Nava, sulla base delle cui dichiarazioni furono individuati gli esecutori dell'omicidio.
Rosario Livatino nacque a Canicattì nel 1952, figlio di Vincenzo Livatino - impiegato dell'esattoria comunale - e di Rosalia Corbo. Conseguita la maturità presso il locale liceo classico Ugo Foscolo, dove s'impegnò nell'Azione Cattolica, nel 1971 si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo, presso la quale si laureò cum laude nel 1975.
Tra il 1977 e il 1978 prestò servizio come vicedirettore in prova presso l'Ufficio del Registro di Agrigento. Sempre nel 1978, dopo essersi classificato tra i primi in graduatoria nel concorso per entrare nella magistratura italiana, venne assegnato presso il tribunale ordinario di Caltanissetta.
Nel 1979 diventò sostituto procuratore presso il tribunale di Agrigento e ricoprì la carica fino al 1989, quando assunse il ruolo di giudice a latere.
Come Sostituto Procuratore della Repubblica si occupò fin dagli anni ottanta di indagare non soltanto su fatti di criminalità mafiosa ma anche di tangenti e corruzione. Nel 1982 aprì un'indagine sulle cooperative giovanili di Porto Empedocle, in particolare sui criteri con cui erano finanziate dalla Regione Siciliana[1]. Inoltre, in base ad una sua intuizione, la Procura di Agrigento aprì un’inchiesta su un giro di fatture false o gonfiate per circa 52 miliardi di lire che gli imprenditori catanesi Carmelo Costanzo, Mario Rendo, Gaetano Graci ed altri ottenevano in tutta la Sicilia dalle ditte subappaltatrici per opere mai eseguite o appena cominciate[2][1]; per competenza l’indagine passò, poi, a Catania e a Trapani[3]. Nello stesso periodo, Livatino si occupò della prima grossa indagine sulla mafia agrigentina insieme ai suoi colleghi, i sostituti procuratori Salvatore Cardinale e Roberto Saieva e il giudice istruttore Fabio Salamone coordinati dal procuratore capo Elio Spallita, che sarebbe poi sfociata nel maxi-processo contro i mafiosi di Agrigento, Canicattì, Campobello di Licata, Porto Empedocle, Siculiana e Ribera (Ferro Antonio + 43) che si tenne presso l'aula bunker di Villaseta (ex palestra sportiva) nel 1987 e si concluse con quaranta condanne[4][5][6]. Nell'ambito di tale inchiesta, Livatino si trovò ad interrogare diversi politici dell'agrigentino (gli onorevoli Angelo Bonfiglio, Gaetano Di Leo e Calogero Mannino) sui loro rapporti con esponenti mafiosi locali[1][5].
Nella sua attività si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la Tangentopoli siciliana[7], utilizzando tra i primi lo strumento della confisca dei beni ai mafiosi[8][9].
Venne ucciso il 21 settembre 1990 sulla SS 640 Caltanissetta-Agrigento all'altezza del viadotto Gasena (in territorio di Agrigento) mentre si recava, senza scorta, in tribunale, per mano di quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina, organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa nostra[10]. Era a bordo della sua vettura, una vecchia Ford Fiesta color amaranto, quando fu speronato dall'auto dei killer. Tentò disperatamente una fuga a piedi attraverso i campi limitrofi ma, già ferito da un colpo ad una spalla, fu raggiunto dopo poche decine di metri e freddato a colpi di pistola.
Tra i primi a giungere sul luogo del delitto il presidente del Tribunale di Agrigento Salvatore Bisulca, il procuratore Giuseppe Vaiola e i suoi ex colleghi Roberto Saieva e Fabio Salamone mentre da Palermo arrivarono il procuratore capo Pietro Giammanco e i procuratori aggiunti Giovanni Falcone ed Elio Spallita e da Marsala il procuratore Paolo Borsellino[11][12].
Pochi giorni dopo l'omicidio, i colleghi più fidati di Livatino, Roberto Saieva e Fabio Salamone, denunciarono lo stato di abbandono in cui versavano i magistrati impegnati in prima linea nelle indagini antimafia, costretti a lavorare in condizioni non certo ideali[13]. Nello stesso periodo, il giudice Francesco Di Maggio (ex collaboratore di Domenico Sica all'Alto commissariato per la lotta alla mafia), intervistato dal quotidiano L'Unità, affermò: "Dietro la bara di Livatino non può nascondersi tutta la magistratura", alludendo alle precise responsabilità ed inerzie dei superiori del giudice assassinato, frase che provocò numerose polemiche[14][15]. I rappresentanti di tutte le Procure siciliane, riunitisi ad Agrigento per commemorare Livatino (intervenne anche Paolo Borsellino), minacciarono le dimissioni di massa, denunciando l'inerzia dello Stato di fronte all'assassinio dei magistrati[16]. Otto mesi dopo la morte del giudice, il 10 maggio 1991 l'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga definì «giudici ragazzini» una serie di magistrati neofiti impegnati nella lotta alla mafia:
«Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l'azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno...? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un'autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l'amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta.» |
Dodici anni dopo l'assassinio, in una lettera aperta pubblicata dal Giornale di Sicilia e indirizzata ai genitori del giudice, Cossiga smentì che quelle affermazioni dispregiative fossero riferite a Rosario Livatino, che definì invece "eroe" e "santo".[17] Papa Giovanni Paolo II lo definì invece «martire della giustizia e indirettamente della fede».
Le prime indagini sull'omicidio Livatino procedettero molto velocemente grazie soprattutto alla testimonianza di Pietro Nava, un agente di commercio originario di Milano che si trovava a passare da lì per caso con l'auto ed assistette, come testimone oculare, all’omicidio[18]. Il 7 ottobre 1990, dopo appena quindici giorni dal delitto, gli uomini dello SCO della Polizia di Stato, guidati dal dirigente Gianni De Gennaro e in collaborazione con la polizia tedesca, individuarono ed arrestarono nei pressi di Colonia i ventitreenni Paolo Amico e Domenico Pace, esponenti della Stidda di Palma di Montechiaro da tempo residenti in Germania dove ufficialmente facevano i pizzaioli[19][20][21].
Tali arresti portarono al primo processo per l'omicidio Livatino (denominato "Livatino uno") che iniziò nel novembre 1991 e vedeva appunto imputati Amico e Pace come esecutori materiali del delitto[22]. Nel frattempo sopraggiunsero le dichiarazioni di Gioacchino Schembri, un altro esponente della Stidda palmese pure emigrato in Germania che iniziò a collaborare con il giudice Paolo Borsellino nel giugno 1992, il quale accusò Amico e Pace di aver partecipato all'omicidio e rivelò i nomi di altri responsabili[23]: tali dichiarazioni si rivelarono decisive insieme alle altre testimonianze e prove e il 18 novembre 1992 indussero la Corte d'Assise di Caltanissetta, presieduta da Renato Di Natale, a condannare all'ergastolo Amico e Pace[24], sentenza poi confermata sia in appello che in Cassazione[25].
Nel 1993, grazie alle indicazioni del collaboratore di giustizia Gioacchino Schembri, vennero individuati ed arrestati gli altri membri del gruppo di fuoco stiddaro che assassinò il giudice Livatino: Gaetano Puzzangaro, di 23 anni (detto "la mosca", originario di Palma di Montechiaro), Giovanni Avarello, di 28 anni (esponente della Stidda di Canicattì) e Giuseppe Croce Benvenuto, di 23 anni (anche lui stiddaro palmese), il quale iniziò a collaborare a sua volta con la giustizia e fornì nuovi particolari[26][27]. Per queste ragioni, nello stesso anno il gip Sebastiano Bongiorno, su richiesta della Procura della Repubblica di Caltanissetta, emanò un'ordinanza di custodia cautelare nei loro confronti, che condusse al secondo processo per il delitto Livatino (denominato "Livatino bis"), che vedeva imputati, oltre Puzzangaro ed Avarello, anche Domenico Pace e Paolo Amico (già condannati all'ergastolo nell'altro processo) per detenzione abusiva delle armi adoperate nell'omicidio mentre la posizione di Croce Benvenuto venne stralciata[26]. Il processo si concluse in primo grado nel luglio 1995, quando la Corte d'Assise di Caltanissetta, sempre presieduta da Renato Di Natale, condannò all'ergastolo Puzzangaro ed Avarello mentre Amico e Pace al pagamento di un milione di lire di multa perché quel reato costituiva la continuazione di quello di omicidio per cui erano già stati condannati nell'altro processo[28][29]. Negli anni successivi la sentenza venne confermata negli altri due gradi di giudizio[29].
Nel 1997 iniziò il terzo processo (denominato "Livatino ter"), scaturito dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Giuseppe Croce Benvenuto e Giovanni Calafato, che confessarono di avere partecipato alla fase ideativa ed organizzativa dell'agguato: gli imputati erano, oltre agli stessi Croce Benvenuto e Calafato, Antonio Gallea, Salvatore Calafato (fratello di Giovanni), Salvatore Parla e Giuseppe Montanti, capi delle Stidde di Canicattì e Palma di Montechiaro accusati di essere i mandanti dell'omicidio Livatino poiché credevano erroneamente che il giudice favorisse il loro nemico, il boss di Cosa Nostra Giuseppe Di Caro (suo vicino di casa), e perseguisse invece la loro organizzazione con l’applicazione di pesanti misure di prevenzione e condanne[30][31].
Nel 1998 la Corte d'assise di Caltanissetta, presieduta da Luigi Russo, condannò Antonio Gallea all'ergastolo e Salvatore Calafato a ventiquattro anni di reclusione mentre i collaboratori Croce Benvenuto e Calafato vennero condannati rispettivamente a diciotto e sedici anni di carcere; Parla e Montanti vennero invece assolti[30].
Al processo d'appello non si costituirono parte civile i genitori del magistrato ucciso, Vincenzo Livatino e Rosalia Corbo, i quali in un'intervista giornalistica chiarirono le motivazioni: "Siamo stanchi di tutto. Siamo stanchi della parole e anche dei processi"[32]. Infine nel settembre 1999 la Corte d'assise d'appello di Caltanissetta modificò la sentenza di primo grado: la pena dell'ergastolo venne confermata per Gallea ma estesa anche a Salvatore Calafato, Salvatore Parla e Giuseppe Montanti mentre la posizione di Croce Benvenuto e Calafato venne stralciata dal processo e, giudicati separatamente, ebbero entrambi tredici anni di carcere con lo sconto di pena previsto per i collaboratori di giustizia[30]. Nell'ottobre 2001 la prima sezione penale della Cassazione confermò l'ergastolo per Gallea e Calafato ma dispose lo stralcio per la posizione degli altri due imputati Giuseppe Montanti e Salvatore Parla, il cui ergastolo sarà infine confermato l'anno successivo e diverrà definitivo[33][25].
In occasione di diversi eventi pubblici e conferenze sul tema della giustizia e sul ruolo del giudice nella società odierna, Livatino delineò con numerosi suoi interventi la figura del magistrato dotato di una forte etica, apolitico, autonomo ed indipendente, lontano da condizionamenti di qualsivoglia natura, pronto al dialogo e al rispetto di tutti gli attori del procedimento, non ultima la persona da giudicare.
La sua figura è ricordata nel film di Alessandro Di Robilant Il giudice ragazzino, uscito nel 1994; è invece del 1992 il libro omonimo, scritto da Nando dalla Chiesa, che portò all'erronea attribuzione del nomignolo al magistrato ucciso. Nel 2006 è stato realizzato il documentario La luce verticale per promuoverne la causa di beatificazione[36]. Nel 2016 il documentario Il giudice di Canicattì, di Davide Lorenzano con la voce narrante di Giulio Scarpati (suo interprete nel film di Di Robilant), trasmesso il 12 dicembre 2017 su Rai Storia[37], esplorò la personalità del magistrato, rivelando immagini inedite e nuovi episodi di vita.
Nel 1993 il vescovo di Agrigento, Carmelo Ferraro, ha incaricato la professoressa Ida Abate, che fu insegnante del giudice, di raccogliere testimonianze per la causa di beatificazione.
Il 19 luglio 2011 è stato firmato dall'arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro, il decreto per l'avvio del processo diocesano di beatificazione, aperto ufficialmente il 21 settembre 2011 nella chiesa di San Domenico di Canicattì[38].
Durante la fase diocesana hanno testimoniato 45 persone sulla vita e la santità di Rosario Livatino, e tra questi anche Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer mafiosi del giudice, intervistato in carcere dal giornalista canicattinese Fabio Marchese Ragona per il settimanale Panorama nel dicembre 2017[39] e per il TGcom24 nel settembre del 2019[40].
Il 6 settembre 2018 venne annunciata la chiusura del processo diocesano, che è stata celebrata il 3 ottobre con una messa solenne nella Chiesa di Sant'Alfonso ad Agrigento, presieduta dal cardinale Francesco Montenegro.[41] Al termine della celebrazione è stata inviata a Roma tutta la raccolta di documenti e di testimonianze composta da circa 4.000 pagine e che venne poi esaminata presso la Congregazione delle cause dei santi.
Il 21 dicembre 2020 papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle cause dei santi a promulgare il decreto riguardante il martirio, aprendo la strada alla sua beatificazione. Nel decreto si fa riferimento alla circostanza, già emersa nel processo contro gli assassini del giudice[42], che Giuseppe Di Caro, il capo della "famiglia" di Canicattì che abitava nello stesso palazzo in cui vivevano Livatino e i genitori, lo definiva con spregio "santocchio"' per via della sua frequentazione quasi giornaliera della chiesa[43].
La cerimonia di beatificazione si è svolta il 9 maggio 2021 nella Cattedrale di Agrigento, nell'anniversario della visita apostolica di papa Giovanni Paolo II nella città dei Templi.[44] La celebrazione è stata presieduta dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi.
La sua ricorrenza si celebra il 29 ottobre, giorno in cui nel 1988, a 36 anni, ricevette il sacramento della confermazione, come compimento di un travagliato percorso di fede che abbracciò da adulto con convinzione.
Livatino è il primo magistrato beato nella storia della Chiesa cattolica.
Controllo di autorità | VIAF (EN) 72197668 · ISNI (EN) 0000 0000 3205 0636 · LCCN (EN) n93091389 · GND (DE) 11915000X · BNF (FR) cb12409935f (data) · WorldCat Identities (EN) lccn-n93091389 |
---|
L'articolo Rosario Livatino in Wikipedia italiana ha preso i seguenti posti nella classifica di popolarità locale:
Il contenuto presentato dell'articolo di Wikipedia è stato estratto 2021-06-13 sulla base di https://it.wikipedia.org/?curid=259765